La pandemia Covid19 ha allineato (senza in null’altro avvicinarli) le politiche sanitarie dei presidenti di Messico e Brasile, i due massimi giganti industriali latinoamericani e maggiori partners commerciali dell’Italia nella regione. Fieri avversari in tutto e per tutto, di fronte alla sfida mortale del coronavirus lo scettico populista di sinistra Andrés Manuel Lopez Obregon e l’ultra religioso evangelico Jair Bolsonaro, estremista di destra, hanno compiuto analoghe valutazioni riduzioniste dei pericoli sanitari che hanno di fronte. Privilegiano le preoccupazioni per i rispettivi sistemi produttivi e conti pubblici, che attraversano gravi difficoltà, rispetto a quelle per la salute dei loro cittadini, in non minor pericolo. Entrambi resistono a dichiarare la quarantena nazionale decisa invece da altri paesi per contenere i contagi, a cominciare dall’Argentina, che immediatamente li segue per abitanti e prodotto interno lordo (PIL).
La spiegazione di questa sorprendente coincidenza cosi come delle decisioni in senso contrario o di quelle intermedie di altri governi si ricava dal contesto generale dell’America Latina, dolorosamente marcato dalle ineguaglianze tra paese e paese, città e campagne, classi sociali e individui. Nella relativa fragilità dei suoi diversificati ma sempre insufficienti livelli di sviluppo, dei sistemi istituzionali, nella scarsa integrazione culturale e sociale dei suoi quasi 700 milioni di abitanti. Come del resto, al netto delle differenze, in altre zone del mondo, non escluse le più tecnologicamente avanzate. Se la maggioranza dei lavoratori dell’Ilva di Taranto preferiscono il rischio del cancro alla certezza della disoccupazione, non può stupire un’analoga tendenza in zone in cui l’economia informale, cioè il lavoro nero, costituisce il 30/40 per cento del totale. Era esattamente così anche nel celebrato Giappone del boom economico di fine secolo scorso.
Diversi, tuttavia, politiche sociali e temperamenti dei due capi di stato. Pur manifestando entrambi tendenze autoritarie, che del resto non mancano certo di precedenti nella storia dei loro paesi, Lopez Obrador giustifica il proprio azzardo nello sperare che il Covid19 non invada il Messico con la medesima virulenza con cui lo ha fatto nella lontana Europa e nei confinanti Stati Uniti, proteggendo in qualche misura i cittadini maggiormente esposti. E lo fa con provvedimenti insufficienti ma coerenti. Bolsonaro esibisce un ottimismo messianico insieme a un’indifferenza per la sorte altrui e il mondo del lavoro subordinato specialmente, che gli provoca critiche di suoi ministri e generali. Ai quali egli ribatte con accuse di tradimento e personalismo. Salvo poi dover rinnegare le affermazioni più incaute (“Si qualcuno morirà… Mi dispiace… Mia madre ha 92 anni, ci potrebbe lasciare…”) e -costretto dal suo stesso partito- fare marcia indietro sull’idea di sospendere dal lavoro senza salario decine di migliaia di operai.
I governatori di due stati-chiave come San Paolo e Rio de Janeiro hanno proclamato la massima emergenza. Devono far fronte a centinaia di infettati conclamati e alle prime decine di morti. Ma sanno che la realtà è infinitamente più grave. Le città capoluogo d’entrambi gli stati sono intersecate da molte decine di favelas che alloggiano precariamente milioni di persone d’ogni età e sono prive di servizi igienici e sanitari affidabili. Non è eccezionale che nelle case manchi anche l’acqua corrente. Potrebbe verificarsi una catastrofe umanitaria senza rimedio. Il socialdemocratico Joao Doria, da Rio, il socialcristiano Wilson Witzel da San Paolo, e altri 27 governatori, alcuni suoi alleati politici, sollecitano Bolsonaro a concordare urgentemente misure adeguate. Lui, preoccupato d’ogni eventuale concorrente, risponde attraverso la CNN che stanno solo “pensando con eccesso di anticipo a prepararsi la loro campagna elettorale”.
Il suo ministro dell’Economia ha intanto ridotto a zero le stime di crescita per l’anno in corso. Ma autorevoli istituzioni private e i mercati finanziari annunciano invece una forte recessione. La Fondazione Getulio Vargas (FGV) afferma che la maggiore economia del subcontinente rischia di retrocedere del 4,4 per cento nel 2020, per scendere ancora nei successivi 3 anni. In anticipo su una vertenza che con ogni probabilità avrà una portata globale, viene avvertito in Brasile e pubblicamente discusso l’insorgere di una esasperata competizione tra salari e profitti. Con una disoccupazione all’11,2 per cento e l’aggravamento della congiuntura determinato dalla pandemia, molte imprese stanno riducendo produzione, orario di lavoro e personale. Compagnie aeree, automobilistiche (Wolkswagen, Mercedes, Ford, GM), petrolchimiche a cominciare dalla stessa Petrobras, sollecitano aiuti dello stato.
Non soltanto, ma certamente in America Latina le legislazioni vigenti non appaiono in grado di soddisfare e neppure contenere le necessità create dalla pandemia. Tanto meno con la necessaria urgenza. I governi legiferano dunque per decreto. Non mancano di giustificazioni. Ma sebbene sotto stress e comunque evitando in generale psicosi cospirative, l’opinione pubblica non tace preoccupazioni e perfino allarmi per l’emarginazione di fatto delle normali procedure democratiche, già insoddisfacenti. Il liberalismo politico, l’economia di mercato e le istituzioni democratiche, che con maggiore o minore sensibilità sociale o anche semplicemente umanitaria hanno alimentato e sostenuto l’egemonia culturale dell’Occidente dal secondo dopo-guerra a oggi, visti dall’estremità latinoamericana appaiono disconnessi e in qualche punto a rischio di vacillare.