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Turchia, quando i difensori dei diritti umani sono “nemici dello stato”

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L’ultimo difensore dei diritti umani a essere condannato in Turchia a causa delle sue attività è stato Mehmet Raci Bilici, membro del direttivo nazionale dell’Associazione per i diritti umani ed ex direttore della sezione di Diyarbakır.
Il 12 marzo è stato condannato a sei anni e tre mesi di carcere per “appartenenza a un’organizzazione terroristica”, ai sensi del famigerato articolo 314.2 del codice penale turco.
Bilici è ancora a piede libero in attesa dell’appello. Ma se la condanna verrà confermata, andrà ad aggiungersi al lungo elenco di difensori dei diritti umani nelle prigioni turche: decine e decine di giornalisti, avvocati, appartenenti a organizzazioni non governative considerati alla stregua di “nemici dello stato”. Persone il cui lavoro in un paese normale dovrebbe essere considerato una sorta di “eccellenza” e che invece in Turchia è mortificato e criminalizzato.
Il nome che viene subito in mente è quello dell’avvocata Eren Keskin, da 30 anni dalla parte dei diritti umani. Nella sua carriera professionale è finita oltre 100 volte di fronte a un giudice per rispondere complessivamente di 143 capi d’accusa. Il 30 marzo 2018 è stata condannata a 12 anni e mezzo di carcere per aver pubblicato articoli ritenuti “degradanti” nei confronti della nazione turca e “offensivi” nei confronti del presidente. È attualmente libera, in attesa dell’esito dell’appello.
Tutto questo mentre, in piena pandemia da Covid-19, 27 associazioni (tra le quali Amnesty International e Articolo 21) si sono rivolte al governo di Ankara chiedendo che nel provvedimento di decongestionamento degli istituti di pena, in via di presentazione al parlamento e che dovrebbe coinvolgere circa 100.000 detenuti (un terzo della popolazione carceraria), siano compresi anche i prigionieri di coscienza, molti dei quali condannati solo per aver svolto legittimamente e pacificamente attività in favore dei diritti umani.


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