Secondo Albert Einstein, «la crisi è la più grande benedizione per le persone e le nazioni, perché la crisi porta progresso».
La crisi ci pone di fronte a delle sfide e ci spinge a fare del nostro meglio per superarle. Se abbiamo fiducia nella nostra capacità di superare le difficoltà reagendo con forza d’animo e un impegno costruttivo, persino la peggiore delle crisi può essere un’occasione di crescita individuale e di progresso sociale.
La pandemia del Covid-19 costituisce un’emergenza sanitaria che sta causando un grave turbamento nell’economia dei Paesi in cui il contagio è più elevato.
Non è facile vedere nei terribili fatti a cui stiamo assistendo un’opportunità. Però l’unico modo per superare con successo la grave situazione che stiamo vivendo è quello di trarne qualche insegnamento da mettere in pratica subito, ove serva ad alleviare l’impatto sulla salute e sul piano socio-economico, oppure quando l’incubo sarà finito, per non ripetere alcuni errori che ci hanno reso più difficile contrastare questa pandemia.
Le sofferenze dei feriti e dei caduti nella “guerra” contro questo nemico insidiosissimo, perché invisibile e ancora in parte sconosciuto, non saranno un vano sacrificio se, ad ogni livello, ci faremo venire delle buone idee.
Nel nostro Paese dovremmo migliorare alcuni aspetti del nostro sistema sanitario, industriale ed economico; nell’Unione europea bisognerebbe riscoprire l’importanza dei principi che sono alla base del processo di integrazione intrapreso dai “padri fondatori”; a livello internazionale occorrerebbe riconoscere che ci sono degli interessi collettivi che tutti gli Stati devono tutelare; ciascuno di noi potrebbe iniziare a dare il giusto valore a cose che spesso si danno per scontate.
Opportunità, dunque, non una maledizione.
Un intervento pubblico virtuoso
Il Covid-19 si è abbattuto come uno tsunami sul nostro Paese, travolgendo alcune aree e minacciando di espandersi nelle altre.
La gravità della situazione che stiamo vivendo risulta particolarmente evidente quando si leggono sulla stampa e nei social media le “testimonianze dal fronte” degli operatori sanitari che, giorno dopo giorno, lavorano a ritmi estenuanti, con grande professionalità, senso del dovere e umanità, per cercare di alleviare le sofferenze e salvare le vite delle persone che si ammalano seriamente a causa del Covid-19.
Abbiamo visto i loro volti pallidi per la fatica, con le escoriazioni e gli arrossamenti provocati dai dispositivi indossati per proteggersi dal virus. Molti non vedono da giorni i propri cari e, con accorati appelli, ci chiedono di collaborare restando a casa, in modo da non esporre noi stessi o gli altri al rischio del contagio.
I medici e gli infermieri al fronte ci appaiono eroici, nonostante abbiano spesso l’aspetto di chi è provato non solo da turni di lavoro serrati, ma anche dalle forti emozioni che si vivono stando a contatto con persone sofferenti per le quali non esiste una cura. Vorremmo cingerli idealmente con un abbraccio per dimostrare la nostra riconoscenza e ammirazione. Ma in realtà, sono questi valorosi “guerrieri” a tenere tra le braccia l’Italia per proteggerla dal “nemico”, come nell’immagine apparsa in una delle torri dell’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo.
Si può dire con Churchill che «never was so much owed by so many to so few» (Mai così tanti dovettero così tanto a così pochi).
Il Covid-19 ha messo in luce i tanti punti di forza e di fragilità della nostra Sanità. Ancora una volta, sono le “testimonianze dal fronte” a dirci con chiarezza cosa non va.
Alcuni operatori sanitari e ricercatori lamentano il protrarsi per anni di un rapporto di lavoro precario con ospedali e Università e denunciano la scarsità di posti di terapia intensiva, di camici, mascherine e altri dispositivi essenziali per la salute dei pazienti e degli operatori sanitari. Per anni abbiamo sentito parlare di tagli alla spesa sanitaria, di “fuga dei cervelli”, del numero chiuso nelle Facoltà di Medicina. Raramente, però, si è riflettuto seriamente su questi temi. Il tutto si è ridotto a degli slogan ‘ad effetto’, destinati a passare rapidamente nel dimenticatoio.
C’è da augurarsi che l’emergenza causata dal Covid-19 ci porti a distinguere con attenzione tra gli sprechi, che vanno senz’altro eliminati, e le spese necessarie per un efficiente Servizio Sanitario Nazionale; tra un’università seria, che premia il merito, e una limitazione a monte dell’accesso allo studio, in cui spesso la fortuna gioca un ruolo determinante; tra una temporanea flessibilità lavorativa e il precariato; tra i concorsi e le gare pubbliche, come strumenti per garantire scelte razionali e imparziali, e la sfiancante burocrazia che paralizza l’azione pubblica.
Bisogna attenersi al precetto costituzionale secondo cui la salute è “fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività” e salvaguardare il nostro SSN che, garantendo la cura a tutti senza distinzioni, concretizza quel precetto.
Più in generale, è forse giunto il momento di fare una seria riflessione sull’intervento dello Stato in economia. Il clamore e lo sdegno per gli sprechi e gli scandali giudiziari di molti politici e funzionari ci hanno portato a preferire che al pubblico subentrasse il privato nella gestione di infrastrutture e altri assets strategici.
Così, ad esempio, consideriamo ormai inevitabile la delocalizzazione della produzione industriale. La pandemia che stiamo combattendo ad armi spuntate a causa della difficoltà di rifornirsi all’estero dei dispositivi medici che servono per curare i pazienti seriamente colpiti dal virus ci dovrebbe far riflettere sui rischi che si possono correre nelle situazioni d’emergenza se non ci sono imprese locali che fabbricano i prodotti essenziali per le prestazioni sanitarie o altri servizi di pubblica utilità.
Più Europa “per i popoli”
Nel famoso romanzo La Peste, Albert Camus scriveva «la peste aveva ricoperto ogni cosa: non vi erano più destini individuali, ma una storia collettiva, la peste, e dei sentimenti condivisi da tutti».
Questa pandemia è una grande occasione per l’Unione europea per dimostrarsi un’Europa dei popoli, cioè funzionale soprattutto al benessere dei cittadini. Ciò significa tornare alle origini, alla formidabile intuizione che ebbero i padri fondatori: progressive realizzazioni in campo economico per favorire la fratellanza tra i popoli.
La Dichiarazione Schumann affermava con chiarezza che «la costituzione di basi comuni per lo sviluppo economico» era la prima tappa verso «una Federazione europea indispensabile al mantenimento della pace».
In linea con questa visione politica, il Preambolo del Trattato istitutivo della CEE esordiva con tre solenni dichiarazioni di intenti incentrate sui cittadini: porre le fondamenta di una «unione sempre più stretta fra i popoli europei», assicurare mediante un’azione comune il progresso economico e sociale dei loro Paesi, impegnarsi per il miglioramento costante delle condizioni di vita e di occupazione dei loro popoli… Continua su confronti