“Quando la verità non è libera, la verità non è vera”: questa frase di Jacques Prévert, scritta sulla panchina che abbiamo deposto nel luogo in cui i nazisti radunarono gli ebrei romani del Ghetto per deportarli ad Auschwitz, quel maledetto 16 ottobre 1943, rende bene il senso della nostra tre giorni. Una panchina, realizzata con il legno degli alberi abbattuti dalla tempesta che l’anno scorso ha sconvolto il Veneto; una semplice panchina, dedicata ai tipografi e ai cronisti che morirono nelle camere a gas, dopo essere stati licenziati, maltrattati in ogni modo e, nel caso dei giornalisti, espulsi dall’Ordine. Un gesto apparentemente comune eppure importantissimo, decisivo in questa tragica stagione nella quale l’antisemitismo, la xenofobia, il razzismo, la violenza e le discriminazioni sono tornate a farla da padrone in una società sempre più sfibrata.
Tuttavia, non è l’unica immagine che mi resterà dentro di questa tre giorni di Articolo 21. Non c’è stata, infatti, solo la visita al Museo della Shoah, la panchina posta là dove l’orrore ha avuto inizio, un dibattito franco e corale sull’importanza di contrastare l’odio ovunque esso si palesi. Gli sguardi che non potrò mai dimenticare sono quelli di due maestri come Giuliano Montaldo e Vincenzo Mollica, venuti nonostante condizioni di salute non propriamente ottimali e ancora in grado di regalarci entusiasmo, ironia, battute, quella levità calviniana della quale, anche a sinistra, si è purtroppo perso il seme. E poi quello di una ragazza, Luana Moresco, la compagna di Antonio Megalizzi, il nostro giovane collega assassinato a Strasburgo da un coetaneo che aveva scelto l’odio come professione e il fondamentalismo come casa naturale dei suoi deliri. Ciò che ho amato di Luana, e ovviamente della famiglia Megalizzi, è la discrezione, la partecipazione sincera ai drammi del mondo, il desiderio di non arrendersi, di continuare a lottare insieme per un futuro migliore, di fare in modo che Antonio sia ancora qui con noi, con le sue idee, i suoi valori e la dolcezza delle sue parole che riuscivano, in modo mite, a contrastare efficacemente la barbarie che ormai alligna ovunque. Di Luana mi ha colpito la maturità, la fierezza, quel suo non sentirsi una sorta di vedova ma ancora, pienamente, la fidanzata di un europeo innamorato della vita che ha perso la vita stessa nella maniera più assurda possibile ma che ci ha lasciato in eredità il suo stile, i suoi princìpi e una ragazza matura e pronta ad affrontare il domani con il coraggio necessario per renderlo un posto migliore per tutti. Per non parlare di Federica, la sorella, che ha parlato con commozione ma, al tempo stesso, con incredibile sincerità, senza retorica, senza frasi fatte e luoghi comuni, restituendoci la pulizia morale e la bontà d’animo di Antonio.
Ecco, per una volta, possiamo esser fieri di aver dato voce ai buoni, come del resto ci ha chiesto di fare anche Paolo Siani, fratello di Giancarlo, e tanto mi basta per avere la certezza che nel regno del cattiverio ci sarà sempre una voce libera, la nostra, pronta a opporsi all’abisso nel quale i malvagi attualmente in auge vorrebbero trascinarci.