Patrizzia (con questa grafia, con le doppie tipiche della dizione dialettale), la vera storia di una sensation seeker, pièce scritta, diretta e interpretata da Savì Manna, per due sere in scena a Catania, alla Sala Giuseppe Di Martino, con le scenografie e le luci di Salvo Pappalardo (produzione Leggende Metropolitane, con il patrocinio del Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università degli Studi di Catania).
Savì Manna, catanese classe 1971, è autore, attore e regista teatrale (ha vinto diversi premi di drammaturgia), è stato definito “un sismografo della realtà”. Ha definito il testo un monologo ma fortemente performante: “Patrizzia, è senza dubbio il lavoro che più mi ha messo in crisi. Patrizzia è il difetto, l’indicibile, il lato oscuro della mia città, ciò che nessuno vuole vedere o sentire, ma di cui tutti siamo complici. È quella furia sciocca, volgare e indomabile, che si respira e si perpetua tra le strade di Catania”.
Catania – Attraverso una mitraglia di espressioni nel più stretto e colorito dialetto catanese, caratterizzato da metafore e simbologie popolari ma decisamente uniche – comprensibili al pubblico siciliano che conosce quel mondo e quei luoghi, i quartieri da dove Patrizzia proviene -, dotate di una sonorità così incisiva e martellante da poter essere comprese da qualsiasi pubblico, procede il racconto di un personaggio borderline, una donna di 50 anni che per sbarcare il lunario vende il pesce a Catania, però ha avuto negli anni Settanta dei trascorsi molto diversi, fatti di rapine piccole e grandi, di esperienze estreme, di ebbrezze provocate dal profumo dei soldi facili, di cocaina e gioco d’azzardo, di “trasferte” nel nord Italia e corse in Kawasaki e sfide continue. Sfide alla fortuna (la fortuna che capisce sempre e non la si inganna se si scambiano le sarde con le alici, amuleto di ogni avventura) che gasano, fanno sentire onnipotenti e forti, fortissimi, finchè… Finchè, a un certo punto, la sorte si capovolge e diventa tragica. Questo finale drammatico è annunciato da un gesto che l’attore fa, ripetutamente, nel corso del racconto, un gesto di angoscia e di tenerezza, di distacco e compassione: si accarezza le braccia, così sembra all’inizio; poi si capisce che da quelle braccia nude, Patrizzia vuole togliere il sangue, lavarlo via per levare ogni traccia, non sentirsi colpevole, nemmeno testimone dell’evento terribile, ineluttabile.
Savì Manna porta con sé una serie di personaggi, alleati e nemici: il marito che guarda la luna, la famiglia di provenienza – una famiglia di galioti che entrano e escono dalla galera, in Piazza Lanza, – l’amica solidale, Antonella, compagna-socia nelle rapine, il marito di Antonella che la picchia, selvaggiamente, lo sbirro, il nemico numero uno, che lei chiama l’amico Frizz (è così che a Catania viene chiamato il rivale, il personaggio che si vuole a tutti i costi escludere dalla propria vita, l’innominabile).
Un popolo di maschere della commedia della verità in una città difficile, violenta, sommersa e impunita. Una città nera, come le sue strade e le facciate dei suoi palazzi di pietra lavica (niuru a luttu), la scogliera nera e scoscesa, i vicoli stretti e tortuosi del centro storico. Con questo spaccato di umanità ai margini Savì Manna fotografa un pezzetto di realtà che i benpensanti non vogliono mai vedere; la sua gestualità, in alcuni momenti, riporta alla mente scene dall’immaginario di Gomorra, o di Romanzo criminale, la mimica che riproduce la sparatoria e l’effetto eccitante di quel rumore assordante, eccitante come la cocaina che si sparano nelle narici, in vena, in fumo.
Patrizzia è una maschera, un carattere fortemente scolpito nel suo dialetto, nel suo intercalare volgare, nelle sua mimica facciale (in siciliano si dice matellico), nel suo imporsi sugli altri con fare minaccioso; lei ripete continuamente U sai cu sugnu iu?, per farsi forte di un’appartenenza a un clan da piccola mafia, quella dei quartieri di certa periferia della città, dove la guerra è quotidiana e la si impara da piccoli. La guerra contro i rappresentanti della giustizia, gli sbirri, i falchi che nella Catania degli anni Ottanta e Settanta sfrecciavano sulle loro Yamaha potenti, e che lei perderà, tragicamente, senza farsi sconfiggere: Nun m’ha tuccari!.
Alla fine del monologo, tra gli applausi del pubblico che affollava il piccolo spazio della Sala di Martino, Savì Manna scende dalla pedana che è stata il suo palcoscenico, e stringe la mano, uno per uno agli spettatori, in un gesto liberatorio e di reciproco, necessario, contatto.