Il 26 luglio del 1945 Winston Churchill, commentando la sua clamorosa sconfitta elettorale, pare abbia detto a chi accusava gli inglesi di ingratitudine che in fondo li capiva, “avevano vissuto anni terribili”, disse. L’uomo politico considerato in Occidente l’esempio di leader capace di mobilitare una nazione nell’ora più buia, il politico che è riuscito a infondere coraggio ad una comunità ferita, che ha vinto la guerra contro Hitler ma ha perso le elezioni contro un candidato laburista di cui non c’è quasi traccia sui libri di storia.
È la democrazia, potremmo dire. Ma non è sufficiente. C’è, appunto, una ragione anche più spontanea: il legittimo desiderio di cambiare vita.
Il 12 marzo 2020 l’erede – si fa per dire – di Churchill, Boris Johnson, ha spiegato alla nazione che l’ora più buia adesso prendeva le forme del coronavirus e che non si poteva respingerlo alle frontiere, occorreva che l’epidemia facesse il suo corso, contagiando milioni di britannici, uccidendone molti, ma così si sarebbero formati gli anticorpi necessari per sconfiggere il virus. Una personalissima e azzardata teoria dell’effetto gregge. Mi auguro che la Gran Bretagna non paghi pesantemente la teoria di Boris Johnson e sono curioso di capire cosa accadrà alle prossime elezioni quando il Primo Ministro populista e isolazionista dovrà presentare il conto.
Viene spontaneo, come noterete, trovare analogie tra l’epidemia e la guerra. E non lo trovo sbagliato. Non tanto per l’idea del virus come nemico invisibile ma, più pragmaticamente, perché in situazioni di emergenza sono le strutture verticistiche abituate a gestire le situazioni anomale le più adatte. È il “genio militare” che ricostruisce i ponti abbattuti dalla piena del fiume e alza le tende quando ci sono i terremoti. Non solo perché la forza armata ha (o dovrebbe avere) le competenze e il materiale per farlo, ma anche perché ha una struttura decisionale semplificata.
In altre parole è un apparato verticistico e poco democratico.
C’è un’alternativa? Sì, in molte nazioni è la Protezione Civile, che nella sua filosofia dovrebbe unire il meglio dell’efficienza materiale con i valori della solidarietà e del pieno controllo democratico della filiera decisionale. Tutto sommato è ciò che sta accadendo in questo momento: uno stato di costrizione globale, mai provato prima, decretato da un organo esecutivo, con il consenso dei gruppi parlamentari, consigliato da un apparato scientifico. E a parte poche proteste sindacali a sostegno della propria salute, sostanzialmente senza contestazioni.
C’è da provare paura per questo scivolamento nell’autoritarismo? O, se preferite, abbiamo gli anticorpi democratici per non abituarci a questa situazione di legge & ordine? Questa è la discussione che ha lanciato Elisa Marincola e che non ha risposte semplici. Innanzitutto perché a differenza di una guerra nel caso del coronavirus le scelte sono (dovrebbero essere) indicate dalle competenze scientifiche. Che vengono spesso veicolate con modalità narcisistiche e spettacolari, quasi sempre per nostra (dei media) responsabilità. Lo storico David Bidussa, in un recente intervento per la Fondazione Feltrinelli, forse ci dà una mano a rispondere. Bidussa si domanda se “il funzionamento della legge prescinde da chi governa, perché il principio che ha messo in atto la legge, e il fine, soprattutto, sono condivisi”. In questo caso “solo obbedendo si dà possibilità di avere futuro. Ciò non significa ritenere che la riduzione di libertà, il suo regolamento drastico fondato sui limiti della libertà al tempo presente costituisca il fondamento di una società buona e felice, ma è visto come la condizione necessaria per provare a immaginarne e ad averne uno pagando un prezzo che sia il meno sconveniente di tutti”. La domanda da cui parte lo storico Bidussa è se l’obbedienza è in questo momento una virtù. E si risponde che in questo momento è anche una virtù: ora, argomenta lo storico, “l’obbedienza assomiglia moltissimo alla sottoscrizione di un patto il cui principio non è la lealtà rispetto alla legge o l’obbedienza, ma la responsabilità collettiva, cui non è estranea ancora una condizione della pratica della disobbedienza civile: quella di non sopire l’attitudine a farsi domande. Ovvero di chiedere prove. Non c’è la firma in bianco di una delega, ma la richiesta di un patto per domani. In questo caso la pratica di obbedienza è di nuovo l’adesione a un patto di convenienza”.
Nell’obbedienza senza delega in bianco che ci propone Bidussa c’è lo spazio che noi giornalisti abbiamo e che dobbiamo difendere. Continuare a chiedere trasparenza sui dati dell’epidemia o insistere perché chi è costretto a vivere in luoghi affollati – carceri e “ghetti” per lavoratori migranti – venga tutelato. E aprire una discussione forte, larga, senza sconti, sulla sanità pubblica, debilitata da anni di tagli, caldeggiati dalle politiche liberiste. Partendo da una prima battaglia: chiedere a Parlamento e Governo di ripensare al decreto che esclude la stabilizzazione dei 20mila medici e infermieri chiamati d’emergenza ad affrontare il coronavirus.
Danilo De Biasio
portavoce Articolo 21 Lombardia
e Direttore del Festival dei Diritti Umani