Si fa presto a dire follia, specie se a ordirne i sintomi è un autore come Pirandello. Specie in questo “Enrico IV” del 1921, scolpito sulle peculiarità interpretative di Ruggero Ruggeri, che, con il gusto di oggi, definiremmo roboanti, corrusche quasi mefistofeliche. Ed in cui la tesissima corda della (finta o vera) alienazione mentale (a noi) fa venire in mente ciò che Jean Cocteau enunciava nel suo “Orfeo”, ovvero “quel sottilissimo filo sospeso nel vuoto” quale allegoria di un relativismo cui la mistificazione e\o la verità risolvono il loro perpetuo duello in un provvisorio armistizio di burla e complicità.
Quale “tipo” di follia affligge quindi l’ “Enrico IV” nella mirabile operazione di sintesi e filologica aderenza (all’originaria stesura) che ne ricavano Calenda ed Herlitzka? Proviamo ad andare con ordine, tenuto conto che la ricorrenza del tema ha sempre angosciato Pirandello sia per cause familiari (il destino della moglie Antonietta), sia per ossessione letteraria (come dimostrano, in forma prismatica, “Così è se vi pare”, “Il berretto a sonagli”, “La vita che ti diedi”-oltre ad alcune novelle).
Anche a costo di citare me stesso, non si può ad esempio prescindere da un dato di fatto. Riconoscere in Marco Bellocchio il primo regista che impresse (nel 1984) tempi e modi con cui l'”Enrico IV” smise di essere dramma naturalista e iniziò a rivelare (grazie alle spontanee ambiguità, all’innato candore di Marcello Mastroianni) la sua natura “subdola, eversiva”: rivalsa della follia, tramite il meta teatro, nemica dell’ inganno dei sentimenti, dei ruoli e le patologie che la ‘socialita’ sancisce ai danni dell’individualità che osa ‘deviare’.
Non per ripicca, ma per meglio chiarire che “non esiste confine tra normalità e follia” che non risponda a un disegno o copione premeditato, dannato e ineludibile.
Fatica e routine dell’ennesimo teatro- nel -teatro che un giovane drappello di apprendisti da retropalco sostiene giorno dopo giorno, incitando “gli scritturati coprotagonisti” a calarsi nei panni di abati, monaci e nobildonne, legati all’imperatore che “cadde da cavallo” per trasformarsi in emblema del “teatral-penitente”: per la propria credulità in amore.
Evitando di tediare chi legge con il solito ‘ripasso’ della tramatura drammaturgica, proveremo invece a focalizzare quelle che- a nostro parere- sono le affascinanti peculiarità dell’allestimento (alleviato e godibile in benedetta silloge di novanta minuti). Innanzi tutto il luogo in cui gli avvenimenti sono evocati (una cripta della Scala Santa in Laterano), capaci di infondere al rito scenico la liturgia di una “claustralità fantasmatica”, di un notturno raduno di “inquieti ectoplasmi” che (si dice nei “Sei personaggi..”) se accade ora accade sempre. Tale da rendere il Teatro Basilica assoluto coprotagonista dello spettacolo.
E, di seguito, quel “tipo” di alienazione, di follia cui si accennava all’inizio. Impressa nello sguardo, nell’anima e nella fragilità corporale di un attore grande e sublime quale Roberto Herlitzka, la cui “senectude” è – allo stesso tempo- causa ed effetto (“irresponsabile per infermità”) di una scelta di vita claustrale, sospettosa, espiativa- non meno che corrosa e vendicativa rispetto alla famigerata festa di Carnevale che il rivale in amore (Belcredi) e la stessa Matilde Spina (la donna agognata) trasformano in antefatto della tragedia: solo “quando il tempo sarà maturo”e affinchè “ciascuno a suo modo” ritorni nel cupo abisso da cui è provvisoriamente risalito, in assurdi, risibili abitini stile anni venti (a dimostrazione che il dramma appartiene anche all’universo delle caricature grottesche).
Cifre stilistiche impercettibili, mai invasive che rendono memorabile (ed auspicabile di ripresa autunnale) il rinnovato sodalizio fra due protagonisti della scena italiana (anche in senso ‘deontologico’), qui alimentati da coprotagonisti e collaboratori artistici tutti di impeccabile professionalità, curriculum e apporto: singolo e corale, in perfetta armonia.
Ps a fine serata, apprendiamo che anche i teatri vanno in quarantena causa virus. Bizzarre le disposizioni governative: si potrà recitare purchè gli interpreti stiano, l’un l’altro, a distanza di almeno un metro. E che gli spettatori occupino una seggiola si e una no. Sbrigativa soluzione sarebbe far lavorare gli interpreti immobili e con uso di leggio. E che le ammissioni in sala avvengano per sorteggio. In attesa che la crisi del ‘settore’ abbia ufficialità e serio sostegno, potremmo ispirarci ai consigli di Giovanni Boccaccio e trasferire il teatro in più frugali spazi di cascine, aie e spianate di campagna. Ricordate “Liolà”?
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ENRICO IV
di Luigi Pirandello
regia Antonio Calenda
con Roberto Herlitzka, Daniela Giovanetti, Giorgia Battistoni, Lorenzo Guadalupi. Armando De Ceccon Sergio Mancinelli, Alessio Esposito, Stefano Bramini, Lorenzo Garufo, Dino Lopardo
Regista assistente: Alessandro Di Murro Scene e Costumi: Laura Giannisi Aiuto regia: Emma Aquino Foto di scena: Tommaso Le Pera Direttore di produzione: Pino Le Pera Progetto grafico: Cristiano Demurtas Organizzazione a cura di Bruna Sdao.
Roma, Teatro Basilica. In ripresa dal prossimo autunno