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La storia triste di Antonio Laccabue. ‘Volevo nascondermi’ di Giorgio Diritti, con Elio Germano

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Laccabue, così si chiamava al secolo il pittore e scultore a cui è dedicato il film, finalmente in uscita nelle sale italiane, Volevo nascondermi, per la regia di Gorgio Diritti e la straordinaria, incredibile interpretazione di Elio Germano.

In realtà il vero nome dell’artista non era nemmeno Laccabue, trattandosi del cognome con il quale era stato legittimato dal patrigno, il marito della madre, che uccise questa e i suoi fratelli lasciandolo solo, adottato da una famiglia di contadini svizzeri, e con una struggente, atroce nostalgia della madre. Affetto da gravi malattie, il rachitismo e il gozzo, con turbe mentali e forti tendenze depressive, ebbe un’infanzia e una gioventù terribili. Più volte ricoverato, sempre scacciato, spaventato e diffidente, aveva scelto la solitudine, la vita allo stato selvaggio, rifugiandosi nei boschi, vivendo di piccoli espedienti e disperato. “Tu sei un errore” gli avevano detto nella famiglia adottiva e, per questo, Antonio scappava, si rinchiudeva, amava gli animali.

Disegnava, con quello che trovava, anche sulla terra solcando le zolle con bastoni e rami, o con pezzetti di carbone sulle pietre o sul legno, e così si calmava, o si sfogava, si immedesimava in ciò che rappresentava e si liberava in parte del suo male. Finché un giorno, l’incontro con il pittore Renato Mazzacurati gli cambiò la vita; gli fece conoscere i colori ad olio e la pittura su tela, col cavalletto e così, quell’uomo emarginato, disadattato, conobbe l’arte. Poi venne accolto nella casa di Andrea Mozzali che lo “educò” all’arte e alla convivenza. Così Antonio divenne Ligabue, l’artista, che piano piano nel corso degli anni Quaranta, arrivò a farsi conoscere e ammirare, si affermò, vendette molti quadri. Neppure la fama però riuscì a cambiare la sua indole, la sua natura di emarginato e disadattato.

La storia di questo artista, il Van Gogh italiano, è molto nota al pubblico italiano over 40; è presente nell’immaginario collettivo per lo sceneggiato televisivo degli anni Settanta, diretto da Salvatore Nocita e scritto da Cesare Zavattini, e interpretato attraverso una potente operazione mimetica da Flavio Bucci, il grande attore teatrale da poco scomparso. Scomparso, per una davvero incredibile coincidenza del caso, proprio nei giorni in cui era prevista l’uscita del film e la sua presentazione al Festival del Cinema di Berlino. Il volto di Flavio Bucci-Ligabue inquadrato in primo piano, mentre corre inseguendo un animale o estasiato dal volo degli uccelli, con i suoi occhi immensi e sgranati sul mondo, la bocca semiaperta, la testa ciondolante, la schiena curva (lui che era altissimo…), è un fotogramma indelebile nella mente di generazioni di italiani.

Questo Ligabue di Elio Germano è un Ligabue diverso, così come è diversa l’impostazione della narrazione, per forza di cose, più schematica e riassuntiva ma di grande efficacia evocativa sul piano delle immagini. Gli aggettivi per definire l’interpretazione di Elio Germano non bastano. Ha affrontato questa prova d’attore con coraggio e umiltà, non rivestendo i panni del personaggio ma trasformandosi, letteralmente, metabolizzando ogni suo dolore, ogni rabbia ed entrando nel suo corpo. Elio Germano, che, giustamente, si è guadagnato l’Orso d’Argento a Berlino, come migliore attore, ha recitato con ogni muscolo del suo corpo, ha cambiato la sua voce, modulando un grammelot quasi incomprensibile, all’inizio, poi il dialetto romagnolo; ha stravolto le orbite degli occhi e il movimento dell’arcata sopraccigliare, ha curvato la schiena, ha fatto urlare lo stomaco, e digrignato i denti, aumentato la salivazione, fatto tremare le mani. Quando guarda gli animali che dipinge e si immedesima in loro, li imita e conversa con tigri, leoni, uccelli, e deforma il suo volto per assumere le loro forme, l’attore magnifica la sua arte.

Avevamo già visto di che cosa è capace, lo abbiamo ammirato nel Giovane favoloso, dove era entrato nei panni di Leopradi, in altri ruoli molto diversi (per esempio in Alaska di Claudio Cupellini, o agli esordi in Che ne sarà di noi di Muccino, in Magnifica presenza di Ozpetek), sempre grande, un gigante dell’interpretazione. Qui il gigante si è superato. Elio Germano prende lo spettatore e lo trascina nel suo incubo, nel suo dolore, nella sua scoperta del mondo, nei suoi occhi meravigliati, nel suo delirio creativo, nel suo sogno d’amore, sul suo letto di morte.

Volevo nascondermi è un film molto duro nei contenuti, molto asciutto nella forma che il regista ha scelto. Frammentario nella narrazione ma pittoresco nella fotografia: i colori, le luci, le ombre, le sfumature sullo schermo sono quelli dei quadri di Ligabue, pittore naïf, un po’ impressionista, un po’ macchiaiolo, decisamente amante dei colori forti e dei tratti spiccati. I primi piani su di lui si affiancano a grandiosi piani sequenza che lo mostrano, felice, mentre corre sulla moto nella campagna padana, con il sottofondo musicale dell’Inno alla gioia di Beethoven.

La musica è l’altro protagonista in questa pellicola: Bach, assoli di violoncello, citazioni dal Trovatore di Verdi, accompagnano le vicende del pittore e tutte le sue inquietudini.

 

Una piccola nota a margine.

Si spera davvero che questo piccolo capolavoro non venga penalizzato da quanto sta accadendo in Italia ai teatri, ai cinema, al mondo della cultura tutta. Una situazione grave ed inedita a nostra memoria, sta sconvolgendo il mondo e il Paese. Al di là delle considerazioni sulla salute pubblica, che deve avere la priorità assoluta, non dobbiamo dimenticare che solo la poesia, l’arte e la cultura ci può salvare dalla barbarie e, davvero, ne abbiamo tanto bisogno come cibo dell’anima.


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