Con la mia beata ingenuità, qualche giorno fa ero andato nel mio studio e avevo ripescato in una vecchia agenda telefonica il numero di Gianni Mura. Lo avrei voluto invitare a partecipare a una piccola pazzia che mi sono inventato in questi giorni per rasserenare l’animo dei miei amici di Facebook: una trasmissione di memorie sportive in compagnia di alcuni ospiti di rilievo. Tra questi, nel mio immaginario, non poteva mancare Gianni Mura, un antidoto al giornalismo-ogm, mutuando la splendida definizione che aveva fornito, ormai diversi anni fa, de “Il sogno di Futbolandia”, il gioiello letterario di Jorge Valdano di cui aveva realizzato la prefazione.
In poche righe, era riuscito a rendere migliore persino un capolavoro, dichiarando con la consueta schiettezza di essere un “accattone di bellezza” e aggiungendo, a ragione, che questa categoria così bistratta era, in realtà, in aumento. Era vero, eccome se era vero, ma quasi nessuno, all’epoca, fu disposto a dargliene atto. Imperversavano gli scandali, i divi da due soldi, lo strapotere delle pay-tv, i campionati spezzettati e quelli come Mura erano considerati ormai dei cimeli, antiche reliquie da venerare con lo stesso spirito con cui si visita il Museo egizio, fossili non più al passo coi tempi cui, al massimo, i cultori del liberismo gentile erano disposti a riconoscere di essere stati, un tempo, dei grandi.
Ciò che pochi hanno capito negli anni, e di cui solo ora ci rendiamo davvero conto, è che personaggi come Gianni Mura non solo sono sempre attuali ma che sono eterni: un po’ come il gol di Pelé nella finale di Messico ’70, un po’ come l’assolo di Maradona contro l’Inghilterra, un po’ come certe definizioni di Brera, di cui Mura, più che l’erede, è stato il volto buono. Perché Brera, quando voleva, e voleva spesso, sapeva essere anche cattivo. Mura no: anche quando si arrabbiava, e si arrabbiava molto, dato il suo carattere burbero e tutto d’un pezzo, aveva sempre una parola di conforto, persino per chi non se la sarebbe meritata. Sapeva essere feroce ma senza mai fare male a nessuno. Sapeva sferzare un mondo, quello del calcio, che amava alla follia ma nel quale faceva fatica a riconoscersi. Sapeva amare il prossimo di un amore puro, cristallino, proprio solo dei santi e delle persone molto al di sopra della media. E Gianni lo era, altroché se lo era!
Se abbiamo amato Pantani e il Tour de France, è stato soprattutto merito suo e delle sue cronache. Perché per Gianni il ciclismo era assai più di uno sport: era la sua casa naturale, il suo terreno di conquista, il luogo ideale in cui fondere il suo genio creativo, il suo amore per i viaggi, il suo desiderio di consumare le scarpe e la sua passione debordante per la gastronomia, il buon vino e la convivialità.
Gianni Mura ha amato la vita come pochi: ne ha amato i sapori, i piaceri, le continue scoperte e, nessuno me lo toglierà mai dalla testa, persino i farabutti, anche pubblicamente li rimetteva al posto loro.
Quando ebbi l’onore di intervistarlo, ormai tanti anni fa, ricordo che a un certo punto il discorso virò sulla gastronomia, con Gianni che mi guidava attraverso il paragone ardito fra i cibi che non sanno più di niente e quest’epoca artificiale in cui persino le passioni più intense sono diventate di plastica. Solo lui poteva arrivare a tanto, osare certi paragoni, usare determinati termini e incantare l’interlocutore con risposte che erano, al tempo stesso, interrogativi esistenziali.
Ora che non c’è più, perché il suo dannato cuore ha deciso di abbandonarlo a soli settantaquattro anni, mi resta il suo numero fra le mani e il rimpianto per quella conversazione che avrei voluto donare a me stesso e agli ascoltatori e che, invece, rimarrà soltanto un sogno. Addio, magnifico accattone!
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