In un’antologia immaginaria su scrittori e popolo (non populismo) il posto di Gianni Mura sarebbe tra quelli di maggior rilievo. Parlare di sport a tutti non è semplice, soprattutto nel nostro Paese, capace ancora di separare tra cultura alta e cultura bassa. E lo sport questo è, da sempre: cultura bassa, bassissima. Perché il racconto dei campioni, dei semidei, riguarda i fanatici e lambisce il mondo dei fumetti e quello dell’intrattenimento, nel migliore dei casi. Nel peggiore è affarismo, cinismo, prepotenza. Non è mai cultura e basta, rimane sempre genere. Ecco, Gianni Mura ha umanizzato la cronaca sportiva, nè alta, nè bassa, facendone un ambito professionale a 360 gradi, capace di fornire il racconto sociale del nostro Paese attraverso lo sport, un po’ commedia, un po’ epopea. Anche quando dalla Olivetti 22 e dalle telescriventi si è passati all’impaginazione elettronica e ai computer.
La terra è terra, profuma a saperla annusare. La plastica no, non ha odore. Aprire il racconto e guardarsi intorno. E l’impaginazione classica dei giornali andava stretta ai suoi articoli, un po’ cronaca, un po’ attualità, un po’ terza pagina, unpò politica, nazionale e internazionale. Oggi si dice spesso che il futuro della professione giornalistica è quello di saper fare selezione e collegamenti, di fronte al nubifragio di fonti, molte farlocche. Appunto. Questa dell’apertura io l’ho sempre letta come una costante nel suo modo di ragionare, guardare le cose e di scriverne. Diceva Gianni Mura, ricordando Cannavò, storico direttore della Gazzetta dello Sport: “I direttori si dividono tra quelli che tengono la porta aperta e quelli che la tengono chiusa. Candido Cannavò la teneva aperta, un dettaglio non da poco, significava che era aperto a qualsiasi esigenza della redazione”. Anche Mura era così: la sua porta era sempre aperta.
Non quella dell’apparenza, schivo e riflessivo per come me lo ricordo, ma quella della sostanza: sguardo panoramico su tutta la realtà che raccontava. I suoi scritti attraversavano i campi da gioco, gli stadi o il pavè delle classiche su due ruote, ma non rimanevano lì. Ho conosciuto Gianni Mura perché tra gli anni ’80 e ’90 contribuì a costruire l’identità dell’Uisp, quella dei diritti, dell’ambiente e della solidarietà, insieme a Gianmario Missaglia, allora presidente dell’associazione, e fu protagonista di molte iniziative di sport sociale e per tutti, come il premio “Sport e Solidarietà” a Perugia nel 1990, al quale partecipò anche Mohammed Alì e per il quale scrisse le motivazioni dei giornalisti da menzionare. O anche il quadrangolare di calcio a Salerno, in cui scese in campo anche la Juventus e una squadra mista con giocatori palestinesi e israeliani. Era un Natale dei primi anni ’90 ed era la prima volta che succedeva.
Più recentemente lo ricordo a Firenze, in una sua rara performance di sport praticato e non solo raccontato, era il 15 marzo 2016 e si trattava di lanciare con l’Uisp il calcio camminato in Italia: “Vietato correre, o l’arbitro fischia punizione contro – scrisse poi su Repubblica – Vietato a chi ha meno di 50 anni. Ammesse le squadre miste. E’ un gioco pensato per chi vuole continuare a giocare con un pallone e con i più giovani si accorgerebbe di non avere più il fisico o di rischiare un coccolone (io tutt’e due le cose). Testimonial è parola impegnativa, ma ci ho messo la faccia, i 70 anni e i 120 chili. Capitano dei Gialli, coi Blù finisce 3-3. Migliore in campo Eraldo Pecci, fuori Bruno Pizzul. Ho maturato, viste le caratteristiche del gioco, una consolante certezza: nessun ultrà verrà mai a vederlo. E non se ne sentirà la mancanza”. Rimase famosa la sua battuta al microfono, rivolto ad Eraldo Pecci: “Lui il calcio camminato lo aveva inventato già qualche anno fa ma nessuno se n’era accorto”. Più recentemente, il 19 marzo 2019, intervenne ad un corso di formazione giornalistica organizzato dall’Uisp e dall’Odg di Milano, “Comunicare lo sport sociale”.
La sala con oltre 200 persone a Palazzo Marino era stracolma e lui si rese disponibile per un pezzo parlato, a quattro mani per così dire, insieme a Franco Arturi della Gazzetta dello Sport: “Lo sport è un’attività umana. Deve essere umano, altrimenti non è sport – ripetè in quell’occasione – Insegna a perdere e a vincere, a migliorare e a rinunciare, è socializzazione. È fonte di ispirazione e modello per i giovani. Lo sport insegna il sacrificio consapevole per un’idea: la politica viene fuori dallo sport, da come viene finanziato, insegnato, praticato, mostrato, perché riguarda valori universali”. Tra il suo amateur, “che fa sport per se, probabilmente non avrà mai il suo nome sul giornale e nemmeno uno sponsor” (da “Tanti amori”, Feltrinelli, 2013) e gli “amatori, ma non riamati” di cui parlava Gianmario Missaglia (“Il baro e il guastafeste”, ed. Seam, 1998) non c’è differenza.
Profeti solitari, praticanti, gente che respira terra perché ha passione che non degenera. Perché tra credenti e fanatici c’è differenza, come ce n’è tra chi fa il giornalista (sportivo) e scrive per tutto il popolo e chi lo fa per accontentare le curve e gli integralisti. E finisco qui, come forse avrei dovuto incominciare, con un grazie. Perché questo non è un coccodrillo, caro Gianni Mura. “I coccodrilli sono pezzi che toccano ai più vecchi o a quelli che hanno più memoria”, come scrivevi su Repubblica il 20 dicembre 1992, per ricordare Giovanni “Gianni” Brera. Io non ho tanta memoria, non sono il più vecchio, non sono il più bravo tra i tanti che stanno scrivendo di te, sono uno del gruppo. Ti ho conosciuto di persona e ci scambiavamo mail quando avevo bisogno. Non posso considerarmi uno stretto. Però ti ho letto e studiato, mi sono applicato e ti sono grato per avermi insegnato un metodo, che spero di seguire con la costanza del mediano: provare caparbiamente ad “aprire” lo sport, a liberarlo dal suo isolamento, a farlo parlare a tutti e di tutti. Spero ti faccia piacere e la terra di sia lieve.
Nella foto: Gianni Mura alla presentazione nazinale del calcio camminato, con l’Uisp a Firenze (marzo 2016)