Ieri il Committee to Protect Journalists è uscito con un pezzo intitolato “Nella pandemia del coronavirus, l’Iran copre informazioni cruciali e minaccia i giornalisti”. https://cpj.org/blog/2020/03/amid-coronavirus-pandemic-iran-covers-up-crucial-i.php.
Giustamente, in quanto vi sono buone ragioni per pensare che l’Iran abbia acoperto la verità sulla prima diffusione del contagio, anche per non pregiudicare la partecipazione alle parlamentari del 21 febbraio. E non vi è ragione di dubitare dei casi riportati, relativi al fatto che le autorità avrebbero imposto ai giornalisti basati nel Paese – anche con minacce, detenzioni e azioni giudiziarie e di polizia – di non discostarsi dalle cifre ufficiali sui contagiati e le vittime del virus. Questo è il lavoro che un organismo come il Cpj deve fare, sostenere i giornalisti in tutte le realtà in cui siano ostacolati, minacciati, uccisi. Anche se ci attenderemmo che un’organizzazione così seria non si limitasse a dire, quando tratteggia lo scenario generale in cui questi abusi sarebbero avvenuti, che “la stabilità del governo iraniano è stata minacciata da vaste proteste a fine 2019 e dall’abbattimento di un aereo ucraino nel gennaio 2020, tra crescenti tensioni con gli Usa”. Perché l’informazione, se deve essere veritiera e corretta, deve essere anche completa. E allora per completezza si dovrebbe dire anche, per esempio, che le sanzioni Usa che da due anni strangolano l’economia dell’Iran – con il dichiarato intento, se non di rovesciare la Repubblica Islamica, di costringerla alla resa su tutti i fronti – colpiscono ora al cuore anche il suo sistema sanitario, e ostacolano gli approvvigionamenti di farmaci e strumenti medici per contrastare il contagio.
Ma non è ancora questo il punto che qui si vorrebbe fare. Infatti, nelle pieghe del testo del Jpj, si legge: “il 12 marzo il Washington Post pubblica immagini satellitare di fosse comuni vicino a Qom, l’epicentro del contagio iraniano, indicando che il numero delle vittime è probabilmente più alto di quello che lo stato ammette pubblicamente”.
Dunque, la questione è: ma quello che le immagini satellitari mostrano, e il WP scrive, dimostrano davvero l’esistenza di fosse comuni?
Per molti media italiani, che citano anche un articolo del Guardian sullo stesso tema, non c’era ombra di dubbio, a giudicare dai titoli del giorno dopo. E invece una più attenta analisi delle foto e del testo fa emergere invece un’altra cosa. I titoli – di solito l’unica cosa che resta nella memoria dei lettori – non dicono cioè quello che dicono i testi. Certo, che questo accada non è una novità sui nostri media, ma in alcuni casi tale discrepanza fa alla verità più male che in altri. Per esempio, per effetto della forza evocativa della parola “fosse comuni”: parola che richiama le immagini di masse di cadaveri scaricati e sepolti l’uno sull’altro in un’unica fossa, senza rispetto delle salme né cura per identificarle. Come nel caso recente, per esempio, delle fosse comuni nel “Califfato” dell’Isis.
E dunque, vediamo il caso del WP che titola “Fosse per le sepolture da coronavirus così grandi da essere visibili dallo spazio”.
https://www.washingtonpost.com/graphics/2020/world/iran-coronavirus-outbreak-graves/
A sostegno dell’articolo alcune immagini scattate dal satellite, che mostrano che lo scavo delle nuove fosse (trenches), in un’area fino ad allora inutilizzata del cimitero di Qom, era cominciato il 21 febbraio e in un paio di settimane la loro totale lunghezza (lenght) era paragonabile a quella di un campo da calcio. A suffragare la tesi delle “fosse comuni” vi sarebbe stata la presenza di un mucchio di calce che, dice un esperto al WP, “può” (can) venire usata per controllare l’odore e la decomposizione nelle fosse comuni. Del resto le stesse autorità iraniane avrebbero confermato di aver in alcuni casi usato la calce nella sepoltura delle vittime del virus. A supporto della tesi delle “mass graves” il WP aggiunge alcuni video, che mostrano un gran numero di salme chiuse in sacchi neri, in un ospedale, e una lunga serie di nuove tombe allineate, una accanto all’altra, nel cimitero di Qom. Tombe allineate e con un piccolo cartello che probabilmente indica il nome della persona appena sepolta. Dunque, tante tombe individuali una accanto all’altra, come nei cimiteri di guerra, e non certo di vittime del virus scaricate tutte insieme in un’unica fossa.
Neanche il Guardian, che pur titola “Immagini satellitari mostrano che l’Iran ha costruito fosse comuni nel pieno della crisi del coronavirus” https://www.theguardian.com/world/2020/mar/12/coronavirus-iran-mass-graves-qom offre elementi in più per dimostrare l’effettiva presenza di fosse comuni, nel senso cioè di sepolture sommarie e indifferenziate. E nemmeno l’esperto interpellato dal Guardian lo prova, perché non ci dice da dove ha appreso l’informazione delle fosse comuni: per quanto emergerebbe dall’articolo, forse l’ha avuto proprio dallo stesso giornale. Con questi argomenti, sia chiaro, non si vuole sostenere che, in linea teorica, non possano esservi fosse comuni in Iran. Si sostiene soltanto che nessuno dei due articoli lo prova.
Ma sostenere, su quelle basi, che l’Iran scava fosse comuni significa dipingerlo come un Paese che non solo non sa o non riesce a gestire l’emergenza virus, ma tratta anche senza rispetto i suoi morti. Insomma, nella sostanza, si tratta di uno dei tanti casi di informazione distorta per dare dell’Iran un immagine negativa. Un compito, quest’ultimo, che dovrebbe spettare ad altri – politici, polemisti, ideologi, propagandisti, strateghi della comunicazione di massa – ma non certo ai giornalisti. Che possono naturalmente avere le loro opinioni, ma hanno il dovere professionale di distinguerle sempre, per il lettore, dalle notizie.