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FELLINI E IL SACRO – ATTI DEL CONVEGNO

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Il convegno su Fellini e il Sacro indetto per il 21 di marzo a Roma, è stato rinviato a data da stabilire; chiuso a catenaccio dal satrapus virus che spadroneggerà sulle nostre vite fino a quando durerà il suo capriccio.

In compenso gli organizzatori, Davide Bagnaresi, Guido Benzi, Renato Butera, hanno pubblicato con encomiabile tempismo il volume degli atti (LAS – Libreria Ateneo Salesiano), consultabile in attesa di tempi migliori: si è già ipotizzato di aggiornare l’iniziativa presentando il libro nel mese di luglio a Chianciano, la città termale di Otto e Mezzo. Si preannunciano eccitanti sviluppi: ASA NISI MASA.

Il tema del sacro è affascinante e riapre un’antica e mai sopita questione sul rapporto del più geniale e famoso regista italiano con la religione, la chiesa, il metafisico. Diciamolo senza girarci intorno: con Dio. Quando il regista cadde vittima dell’ictus cerebrale, Vittorio Monti del Corriere della Sera, accorso nella sua stanza all’ospedale San Giorgio di Ferrara, gli aveva posto a bruciapelo il quesito:

“Qualcuno ha parlato di conversione: ha mai pensato a Dio?”

“E’ possibile non pensarci?” Aveva tagliato corto Federico riconducendo immediatamente il problema alla radice, come suo solito e invariabilmente a proposito. Impaziente del vaniloquio, delle periclitanti e inutili sovrastrutture.

Il libro pubblicato dall’Università Pontificia Salesiana, è avvolgente come una spirale, perché non vuole assolutamente porsi nella direzione del testo edificante, né dottrinario, e ancor meno a caccia di proseliti. Si limita ad aprire una finestra rimasta chiusa per troppo tempo, cercando di rinnovare un’aria stagnante; c’è voluto il Centenario per compiere il gesto liberatorio che nessuno si azzardava a iniziare, per ignavia o pavidità. Suppongo siano giunte a proposito le semplici parole pronunciate a più riprese da Papa Francesco: “Il mio film preferito? ‘La strada’ di Fellini”.

Già, La Strada, da cui tutto prende inizio, dove tutto trova spiegazione, il prima e il dopo. Resta indelebile la definizione che ne diede Fellini in pochissime parole, quasi una sintesi evangelica:

La strada era la storia di una illuminazione, di un trasalimento di coscienza, attraverso il sacrificio di un’altra creatura”.

Fellini regista cattolico? L’artista non gradiva le etichette, anzi le rifuggiva d’istinto, convinto che la creatività non può essere ingabbiata da nessuna ideologia. Però aveva affermato a chiare parole: “Come avrei potuto, nascendo in Italia, scegliere un’altra religione che non sia quella cattolica?”

Ecco, forse gli autori del libro sono partiti da questa asserzione, senza però alcuna pretesa confessionale, ma al solo scopo di comprendere le forme in cui, al di fuori di ogni appartenenza religiosa, si sia espressa la tensione spirituale di Fellini in ventitré film e mezzo che rappresentano il vertice artistico raggiunto dalla cinematografica nel Novecento.

I saggi pubblicati, “Studi e Testimonianze”, aiutano ad accendere un riflettore mobile capace di illuminare ogni anfratto della tematica religiosa in senso esteso. Gianfranco Miro Gori, specialista di cinema e di poesia, nel suo spumeggiante excursus mette in risalto le affinità dell’autore con Giovanni Pascoli e Tonino Guerra. Auro Panzetta esamina dettagliatamente ogni simbolo del sacro passando a setaccio la filmografia; mentre Renato Butera si sofferma sulle rappresentazioni del sacro – preti e religiosi di ogni genere, grado e appartenenza, sacramenti, feste e processioni, statue e immagini di devozione, disseminati nelle storie per lo schermo. Gianluca Arnone passa in rassegna gli atteggiamenti altalenanti dei critici cattolici nei confronti del regista, dall’encomio, all’anatema, al sospetto. Claudia Caneva restringe il campo ai personaggi di Gelsomina, Cabiria e Giulietta; mentre sulla spiritualità di Giulietta Masina si avventura Marco Tibaldi. Cecilia Costa prospetta come chiave di lettura l’immaginario religioso. E se Jonatan Giustini rievoca a ruota libera i sopralluoghi fotografici dell’assistente Paolo Nuzzi al Santuario del Divino Amore, Francesco Ramberti affronta la peculiarità dell’armamentario cinematografico utilizzato spesso come scenografia, un accumulo di simboli di elevazione: torrette, trabanelli, gru e dolly che si innalzano in cielo.

Nulla viene trascurato dagli studiosi, ce n’è per ogni gusto con instancabile acribia.

Poi c’è Guido Benzi, un sacerdote, che dietro il compito di rinvenire ogni traccia biblica nell’opera del Maestro, ne mette a fuoco almeno due pilastri fondanti e irrinunciabili.

Benzi è di Rimini e pur conoscendo Fellini attraverso le storie di famiglia (per l’impresa di costruzioni del nonno Tino, lavorava Ferruccio, il padre di Titta), prende le distanze con un colpo d’ala dalla trappola di una familiarità millantata, e in uno scambio di messaggi mi scrive:

“Non ho mai voluto cedere al voyerismo del tipico fellinismo riminese, che nulla ha a che fare col regista… tabaccaie, sirene prosperose, parolacce, baracconi… decontestualizzate dalla loro cornice artistica … e buttate lì come se Fellini fosse “uno di noi”, “uno del Borgo”. No. Ho sempre avvertito fin dai banchi del liceo (lo stesso Giulio Cesare frequentato da Fellini) che c’era davvero di più. La scena del REX in Amarcord è secondo me a livello di un canto Omerico. Credo che Rimini non si sia davvero ancora resa conto che come Vinci, come Urbino, come Caprese ha dato i natali ad un artista universale.”

Mi pare di riconoscere nelle sue parole l’atteggiamento che più amo; specialmente quando don Guido introduce una nota personale, garbatamente persuasiva:

“Sono contento della pubblicazione e del convegno – quando lo faremo. Mi sento di “pagare” un debito – nel senso più positivo dell’espressione – con una idea che mi ha sempre abitato fin da quando vidi il primo film di Fellini (8 1/2) di cui non capii niente ma di cui mi stregò la sequenza della Saraghina. Per me bambino era una strega che ballando si trasformava in un angelo…”

Questo è un parlare aperto, se si vuole aggiustare la distanza focale con un autore fuori misura, e gettare alle ortiche gli occhiali deformanti di presunti cattedratici.

“Per questo – prosegue Benzi – ho ideato con gli amici Butera, Ramberti e Bagnaresi questo convegno. Al di là della mia sensibilità religiosa e della mia speculazione teologica, credo che Fellini abbia uno spessore “spirituale” ancora non pienamente indagato. Nessuna forzatura, nessuna appropriazione “cattolica” di un genio che è e deve restare universale, con tutte le sue contraddizioni, ma anche con tutte le sue ricchezze – e per questo umano, nel senso più autentico del termine e per questo anche “cristiano” per quella dimensione di valore della persona (in carne ed ossa) che il cristianesimo porta in dote alla cultura universale.”

 

Finalmente un discorso chiaro, onesto, sensato. Oggi il miglior partito appare quello di attenersi ai fatti, come predilige Davide Bagnaresi, che apre il libro con un contributo lineare, solido e molto interessante. Mentre gli altri ricamano parole, per quando acute e accurate, Bagnaresi da giovane storico assai dotato per la ricerca e per gli archivi, si ‘accontenta’ dare forma e contenuto a “L’infanzia e la giovinezza di Fellini a Rimini”; fin dal primo vagito.

“Il parto avviene in una casa popolare di via Dardanelli, al civico 10 (oggi 60) in una abitazione a schiera, l’ottava, in tutto e per tutto simile a quelle accanto.” E a riprova riporta in nota il racconto del diretto interessato, apparso su  La mia Rimini:

«Quando avevo già sette anni una domenica pomeriggio facevamo la passeggiata in carrozza (…) La carrozza svoltò in un viale mai fatto. Una serie di case tutte unite una all’altra. Papà disse: “Sei nato lì.”».

Tra tante persone vaniloquenti – sempre più a sproposito da quando Federico è scomparso – c’è finalmente uno studioso che riordina, mette le cose a posto, ricostruisce una geografia dei luoghi e una prima fisionomia del personaggio, con la leggerezza di uno storico di grazia. Possiede un procedere accattivante, rinfrancante per chi legge, perché ricco di ossigeno e di notizie ‘vere’, una di fila all’altra: come e dove si conoscono i genitori di Federico a Roma; la fuga d’amore verso la Romagna; le successive abitazioni:

“Affittano una seconda casa questa volta in Corso d’Augusto, incrocio tra la via Flaminia e la via Emilia. Qui Urbano fissa la sede della sua nuova attività e il 21 febbraio 1921 nasce il secondogenito Riccardo, al quale viene dato il nome del nonno materno”.

Ogni luogo, ogni personaggio della ‘storia sacra’ viene ricollocato dentro un disegno inoppugnabile. L’infanzia, l’asilo al Pio Istituto San Giuseppe in via Bonsi; il tema in classe su un prezioso cereale, il riso, pubblicato a otto anni “all’interno di un mensile locale dal profetico nome di Licignolo”. Da notare l’eleganza del riferimento sfuggente, senza alcuna pretesa di piantare paletti e bandierine. E via di seguito con le tappe della crescita: la nomina dello studente a “Guardia d’Onore” nell’Opera Nazionale Balilla; la cerimonia della Cresima, due mesi dopo, amministrata in Duomo dal Vescovo riminese Vincenzo Scozzoli, “i cui tratti somatici ricordano quelli del papa nella sfilata in Roma.”  I nomi dei padrini, amici paterni venuti da fuori Rimini. Quindi l’oratorio salesiano, “con un piccolo cinema”; e la nascita nel ’29 della sorella Maddalena, “Bàgolo per i fratelli”.

Federico, carte alla mano, “frequenta gli uffici della parrocchia dove si allestiscono teatrini e momenti creativi”. E frequenta il liceo-ginnasio; conosciamo ogni sua pagella, i compagni di scuola, Alberto Marvelli, futuro Beato, le diverse ubicazioni del liceo, e infine le città in cui il maturando sosterrà gli esami di diploma, lo scritto a Forlì e l’orale a Cesena. Ed ecco il professore di religione don Gaetano Baravelli, indimenticabile don Balosa di Amarcord. Del racconto ‘storico’ fanno parte il pittore Demos Bonini, il teatro Politeama, la Bianchina, primo amore; figurano proprio tutti i comprimari, autentici e certificati. Fino al giorno della partenza da Rimini, nel gennaio 1939; e l’arrivo a Roma, dove la vicenda prenderà altri sbocchi.

E qui il prof. Bagnaresi cede le armi, ma solo per modestia; già si intuisce tra le sue parole che la ricognizione non è finita e che presto spalancherà scenari popolati di nuove scoperte, concrete e ineccepibili. Bagnaresi è bravo, conosce il suo mestiere, insegna all’università; questo suo piacevolissimo capitolo di inizio lascia presagire – glielo auguro, ce lo auguriamo – la stesura di una nuova biografia di gran lignaggio. Era ora: questo Centenario Felliniano segnerà l’anno zero di una nuova era.


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