Nei tempi durissimi del Covid-19 l’imperativo medico di evitare i contatti fra le persone deve tradursi in regole legali vincolanti. “State tutti a casa” può essere un’efficace semplificazione giornalistica, una fervida esortazione sociale, un accorato appello politico; ma come regola legale non funziona. Ci vuole altro, ci vuole di più. Come arrivarci?
Si sente dire che noi non possiamo fare come in Cina (“tutto chiuso”, controlli rigorosi e sanzioni severe), perché quello è un regime autoritario mentre noi siamo una democrazia. Impostazione sbagliata, perché confonde cose diverse: il contenuto delle decisioni politiche da tradurre in regole legali, e il metodo per costruirle. Il contenuto dipende da come si bilanciano i confliggenti valori e interessi in gioco: la salute pubblica, le libertà individuali, la continuità del sistema economico, il grado di sopportazione sociale. I bilanciamenti possono dare risultati diversi: dal “tutto chiuso” di Xi Jinping al “tutto aperto” del Boris Johnson prima maniera fino alla nostra italica via di mezzo. La differenza profonda sta nel metodo con cui la politica arriva al bilanciamento: nella Cina autoritaria ci si arriva per decisione verticistica di un potere assoluto, nei nostri sistemi pluralistici attraverso il confronto fra posizioni e visioni diverse, secondo le procedure della democrazia liberale a cui siamo giustamente affezionati. Ma niente vieta che anche da processi liberal-democratici possano uscire decisioni e regole di contenuto “cinese”.
Qui però non voglio discutere il merito delle scelte fatte in Italia circa quello che la gente può fare o non può fare. Mi soffermo su qualche altro aspetto che chiama in causa atteggiamenti e comportamenti dei poteri pubblici.
Uno riguarda la consapevolezza delle conseguenze derivanti dalle regole adottate. Qualche giorno fa il monitoraggio delle celle telefoniche ha evidenziato che il 40% dei telefonini (e dunque, si suppone, dei loro possessori) era in giro fuori casa, e la cosa è stata denunciata con accenti di sdegno e riprovazione. Lo trovo stupefacente: se le regole finora non impediscono alla grande maggioranza delle persone di andare a lavorare, come si fa a meravigliarsi e soprattutto a esecrare che queste si trovino (coi loro telefonini) fuori delle rispettive abitazioni? E se si diradano le corse dei trasporti pubblici, perché poi stupirsi vedendo bus e metro super-affollati da persone che legittimamente li usano per pendolare fra casa e lavoro?
Un altro aspetto è il modo in cui le regole vengono definite e presentate. Se si vuole che siano osservate e fatte osservare efficacemente, le regole devono essere chiare e non ambigue, tanto meno contraddittorie. Non sempre succede. Lasciando da parte il tormentone del jogging (si può fare? non si può fare? dove? quando? vestiti come?), ricordo che venerdì scorso abbiamo avuto in contemporanea due provvedimenti sulle seconde case: uno nazionale (Ministro della salute) che vieta di raggiungerle da venerdì a lunedì compresi, e uno locale (Regione Liguria / Comune di Genova) che pone lo stesso divieto ma limitato alle giornate di sabato e domenica. Insomma per Toti / Bucci lunedì prossimo io potrei andare nella mia casa di Camogli, per Speranza no (per Speranza ci potrei andare martedì: ma non è chiaro se in modo incondizionato, o solo adducendo le note giustificazioni per la mobilità nell’intera zona arancione). Evidente che c’è un problema irrisolto di coordinamento fra livello nazionale e locale, che pregiudica la chiarezza delle regole.
Infine: ci si occupa troppo (e non sempre bene) di fare regole, e poco della loro applicazione pratica. L’esperienza di questi giorni testimonia che non basta mettere divieti, poi bisogna assicurare che vengano rispettati: e questo è il lavoro più difficile, perché implica azioni efficaci e mezzi adeguati. Invece è un vecchio vizio italiano quello per cui i decisori politici tendono a schivare questa più faticoso aspetto della funzione pubblica, pensando che il loro compito si esaurisca nel varare gride di manzoniana memoria. Quando non la buttano in caciara, come quel presidente di Regione che parla di carabinieri Ho svolto queste considerazioni in spirito costruttivo. L’ultima cosa che vorrei è dare l’immagine del professorino che dalla comoda posizione di osservatore irresponsabile getta la croce addosso ai politici, solo per il gusto di farlo. So quanto sia complicato e faticoso il compito di chi ha responsabilità pubbliche, specie in una congiuntura come quella che stiamo vivendo. E proprio questa emergenza coronavirus mi conferma che dobbiamo considerare la politica come uno fra i mestieri più impegnativi e più preziosi al mondo.
Vincenzo Roppo,Università di Genova. Pubblicato su Secolo XIX