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Chi deve vivere e chi no. L’analisi del prof. Angelo Stefanini

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La pandemia del momento, che ha drammaticamente coinvolto il pianeta e focalizzato attenzione e paura sul nuovo coronavirus e sul come evitare di esserne vittime, pone degli interrogativi di carattere etico che oltrepassano il virus specifico e riguardano aspetti che vanno “dalla diversità morale, al pluralismo della nostra società, alla necessità di rispetto per gli altri e dei loro valori, e al bisogno di tolleranza attiva” come scrive nel suo intervento il prof. Angelo Stefanini, docente di docente di Global Health presso l’Università di Bologna ed esperto in sanità internazionale.

Il documento della Società italiana di anestesia, analgesia, rianimazione e terapia intensiva (SIAARTI) da cui prende le mosse la riflessione del prof. Stefanini “ha il merito di rendere esplicito il fenomeno del razionamento come “scelta tragica” con cui il medico clinico, soprattutto nelle Terapie Intensive, è costretto a confrontarsi… in condizioni eccezionali di squilibrio tra necessità e risorse disponibili”. Un fenomeno che potrà ripresentarsi e porci di nuovo di fronte allo stesso interrogativo: “Chi deve vivere?”. Per questo ve lo proponiamo.

 

Chi deve vivere e chi no (e chi lo decide)

Considerazioni sul documento SIAARTI sul razionamento dell’assistenza sanitaria.

Angelo Stefanini

 

L’andamento del trend dei contagi da Covid-19 e soprattutto dei pazienti critici con assoluto bisogno di cure intensive ha messo in primo piano la questione del razionamento dell’assistenza sanitaria. Il problema è esploso in tutta la sua gravità con l’uscita del documento della Società italiana di anestesia, analgesia, rianimazione e terapia intensiva (SIAARTI) pubblicato il 6 marzo scorso, Raccomandazioni di etica clinica per l’ammissione a trattamenti intensivi e per la loro sospensione, in condizioni eccezionali di squilibrio tra necessità e risorse disponibili. Alcuni titoli di giornali riflettono il turbamento prodotto nel mondo medico e nella popolazione in generale: Se finiscono i posti letto, in terapia intensiva pazienti più giovani e con più speranze di vita”; Se finiscono i posti letto li dobbiamo dare solo a chi ne ha veramente bisogno“. La risposta della Federazione nazionale degli ordini dei medici (FNOMCeO) non si è fatta attendere: “La nostra guida, …, resta il Codice di Deontologia medica. E il Codice parla chiaro: per noi tutti i pazienti sono uguali e vanno curati senza discriminazioni”. “[I]l medico … non deve essere costretto a ergersi a giudice”.  Anche la LIDU, Lega internazionale dei diritti dell’uomo, della sezione della Toscana dava un giudizio critico: “Come LIDU TOSCANA siamo contrari a questo documento e affermiamo inoltre che il criterio deve essere invece la gravità delle persone“.

È l’inevitabilità del razionamento nelle scelte mediche al letto del malato che esplode in tutta la sua rilevanza: qualcuno (il medico) decide chi avrà più probabilità di vivere e chi di morire. Il criterio di scelta sembra essere apparentemente “tecnico”: prognostico (“pazienti…con più speranza di vita”) e diagnostico (“chi ne ha veramente bisogno”). Il discorso è più complesso di quanto possa sembrare.

Il razionamento è stato descritto come una sorta di fantasma che infesta la medicina, la cui esistenza è spesso negata, ma di cui ogni tanto si segnala l’apparizione sotto le sembianze più diverse. In una forma o nell’altra, tuttavia, esso è una presenza inevitabile nella medicina clinica e il documento degli anestesisti italiani ne prende coraggiosamente atto. La sua inevitabilità, sia nei dibattiti politici sia nella realtà pratica, non rende comunque il razionamento più accettabile. Come dichiara la FNOMCeO, i medici lo criticano sia per le limitazioni che impone loro (a che cosa servono i miracoli della medicina moderna se non possono essere messi in pratica quando sono necessari al paziente?) sia per l’offesa che reca al Giuramento di Ippocrate, fondamento deontologico della loro professione. D’altra parte è arduo per i medici accettare che le scelte allocative, responsabili dell’inevitabilità del razionamento, vengano fatte da una burocrazia senza volto e con il potere di decidere quali interventi siano efficienti o efficaci.  Allo stesso modo, i pazienti – o i cittadini in generale – non solo vivono situazioni a livello personale in cui l’accesso è gravemente compromesso da lunghe liste di attesa o da ticket gravosi, ma subiscono anche tagli al finanziamento per certe popolazioni, come gli anziani non autosufficienti o i disabili, colpevoli di soffrire di un enorme carico di malattia e di non potere guarire completamente.

Riconosciuta l’inevitabilità del razionamento, gli estensori del documento SIAARTI dichiarano esplicitamente di ispirarsi a “un criterio il più possibile condiviso di giustizia distributiva e di appropriata allocazione di risorse sanitarie limitate”, ossia “puntare a garantire i trattamenti di carattere intensivo ai pazienti con maggiori possibilità di successo terapeutico: si tratta dunque di privilegiare la “maggior speranza di vita”.” È interessante inoltre notare come, nonostante al termine del documento si affermi che scopo delle Raccomandazioni è anche di “rendere espliciti i criteri di allocazione delle risorse sanitarie in una condizione di una loro straordinaria scarsità”, tale esplicitazione è assente. Tale assenza è rimarchevole perché in questo modo non è possibile giustificare la priorità data al criterio “maggior speranza di vita” rispetto a tutti gli altri. Quali sono allora gli altri criteri di allocazione delle risorse sanitarie ispirati alla giustizia distributiva che gli estensori del documento SIAARTI hanno omesso?

Innanzitutto è importante chiarire che per giustizia distributiva intendiamo la giustizia che regola i rapporti tra la società e i suoi membri, distinguendola quindi dalla giustizia commutativa che regola i rapporti dei singoli tra due persone.  È inoltre anche utile ricordare come non tutti siano d’accordo sul significato stesso di “giustizia”. Infatti, se a sinistra dello spettro politico si tende a dare priorità alla ‘giustizia sociale’ nella visione di una società priva di disuguaglianze, a destra si preferisce celebrare le virtù della legge e dell’ordine, della stabilità e del dovuto premio all’iniziativa privata e al merito individuale.

Sono invece tutti d’accordo con la definizione di Aristotele secondo cui “gli uguali devono esser trattati in modo uguale, mentre i diversi devono essere trattati in modo diverso in proporzione alla loro rilevante disuguaglianza”. Il problema di tale definizione, tuttavia, è che non ci serve a misurare in che cosa due o più individui sono uguali o disuguali. È necessario, infatti, avere a disposizione dei criteri che ci aiutino in pratica a distribuire le risorse (i cosiddetti principi materiali di giustizia). Beauchamp e Childress hanno proposto i seguenti:

  • A ciascuno secondo una suddivisione in parti uguali.
  • A ciascuno secondo il bisogno.
  • A ciascuno secondo il proprio contributo alla società.
  • A ciascuno secondo il merito.
  • A ciascuno secondo le leggi del mercato.

La formulazione delle politiche sociali nella maggior parte delle società fa appello in genere a più di uno di questi principi. Per esempio, almeno in teoria, i sussidi vanno assegnati ai poveri e ai disoccupati (bisogno), i posti di lavoro in base a titoli e concorsi (merito), i livelli dei salari in base alle forze del mercato, mentre l’istruzione pubblica primaria è aperta ugualmente a tutti i cittadini (parti uguali). È anche ovvio che ciascuno dei principi sopra elencati occupi una posizione privilegiata secondo la tendenza politica dominante in quella società. A un estremo sta, infatti, la massima “a ciascuno secondo il proprio bisogno, da ciascuno secondo le proprie possibilità” (teoria egalitaria/ socialista), mentre all’altro troviamo “a ciascuno secondo quanto onestamente procuratosi in una libera economia di mercato” (teoria liberista).

A prescindere dalla posizione politica, tuttavia, non esiste paese che in un modo o nell’altro non razioni i propri servizi (sanitari e non). Il problema è (1) chi e come debba prendere le decisioni e (2) fino a che grado tali decisioni debbano essere esplicite. In Paesi come gli Stati Uniti, dove la sanità è regolata quasi esclusivamente dalle leggi del mercato, il modo più ovvio in cui un tale razionamento ha luogo è tramite la capacità di pagare. Il processo è chiaro e crudelmente esplicito: chi non può permettersi un’assicurazione sanitaria privata rimane privato delle cure o, se sufficientemente povero, può accedere a servizi di seconda categoria forniti dal governo. In un sistema sanitario prevalentemente pubblico, come il nostro, l’accesso è invece, almeno sulla carta, determinato dal bisogno della popolazione, criterio che dovrebbe improntare la programmazione e l’equilibrio del sistema. Tuttavia, una volta assicurata l’equità orizzontale macro-allocativa tramite meccanismi come, ad esempio, l’assegnazione di una quota capitaria alle Regioni (correlata al numero degli abitanti e “aggiustata” o “pesata” in base a vari indicatori), rimane pur sempre il problema di assicurare l’equità verticale nella distribuzione delle risorse. È, infatti, necessario decidere chi ottiene cosa all’interno di quell’ammontare limitato di risorse. Il processo del razionamento, insomma, è costituito da una successione di momenti decisionali che a partire dal livello macro-allocativo centrale si avvicina progressivamente al territorio e ai pazienti fino ad arrivare nelle mani del medico, sia esso anestesista/rianimatore o medico di medicina generale. Tale meccanismo nella maggior parte dei sistemi a prevalenza pubblica è sempre stato implicito, cioè non chiaramente visibile o immediatamente percepibile al pubblico.

Il luogo più tipico dove le risorse sanitarie sono razionate in modo implicito, e quindi invisibile, è l’ambulatorio del medico di medicina generale. A questo livello l’entrata del paziente nel sistema può essere scoraggiata o resa più difficile, per esempio, limitando l’accesso fisico ai servizi (distribuzione geografica di ambulatori, orari di apertura, ecc.) o disincentivandone l’uso (ambienti poco confortevoli, costi extra da sostenere da parte del paziente). È questo il razionamento per deterrenza. Le code negli ambulatori o agli sportelli o le lunghe liste di attesa per interventi terapeutici o diagnostici sono il caro prezzo che la popolazione deve pagare per avere comunque accesso, anche se ritardato, alle cure (razionamento per ritardo). Altra contropartita del carattere universalistico del sistema è l’inevitabile calo di qualità o di intensità dell’intervento di cui un determinato servizio soffre quando la stessa quantità viene ridistribuita per rispondere ad una crescente domanda cercando di soddisfare in qualche modo tutti (razionamento per diluizione). O la decisione di interrompere un determinato trattamento o intervento, per esempio, dimettendo un paziente anzitempo (razionamento per interruzione).  Le risorse a disposizione possono anche essere razionate selezionando (e qui veniamo al nostro caso di Anestesisti e Terapie Intensive), con l’uso dei criteri più diversi, quali persone e gruppi di popolazione (i più meritevoli? i più bisognosi? con maggiore speranza di vita?) o tipi di intervento potranno usufruire delle risorse necessarie (razionamento per selezione) e quali invece no (razionamento per esclusione).

Una barriera sostanziale al passaggio da approcci impliciti a espliciti nel razionamento dell’assistenza sanitaria è l’incapacità (o il timore) di specificare quali criteri di giustizia distributiva debbano guidare le decisioni di razionamento nell’assistenza sanitaria. Venendo al documento SIAARTI, in base a quali criteri va privilegiato il giovane rispetto al vecchio nell’accesso alle cure intensive che aumenteranno le sue probabilità di sopravvivenza? È davvero una decisione “tecnica” basata sulla maggiore probabilità di risposta alla terapia e maggiore speranza di vita, o in qualche modo invece affiorano giudizi di valore o di merito della vita stessa del malato. In fondo in alcuni contesti è pratica comune escludere fumatori e obesi dagli interventi di routine. Chi può dire se l’anziana signora X considera i pochi anni che le rimangono da vivere più o meno di quanto il giovane Y valuti la propria (presumibilmente molto più lunga) esistenza? Sono domande che chiamano in gioco il valore della vita di un individuo, stima che può essere fatta soltanto da quel particolare soggetto in questione e non, ad esempio, dal suo contributo alla produzione globale nella società in cui vive.

Dati empirici da più paesi documentano come nei servizi medici di terapia intensiva abbia luogo il razionamento. In oltre 10.000 decisioni di triage in terapia intensiva in Nord America, Europa, Israele e Hong Kong almeno il 15% dei pazienti non è stato ammesso in terapia intensiva, e di questi circa il 15% è stato attribuito alla mancanza di letti. Inoltre, durante i momenti di mancanza di letti in terapia intensiva, i dati di ammissioni/dimissioni e i tempi di degenza media mostravano come alcuni pazienti erano privati di cure potenzialmente benefiche. Eppure molti anestesisti/rianimatori e la quasi totalità dei medici (come affermato dalla FNOMCeO) ritengono di essere estranei al processo di razionamento nelle loro scelte quotidiane sul malato. Ciò può riflettere una mancanza di comprensione di che cosa sia in realtà il razionamento e della sua inevitabilità, ma soprattutto suggerisce come molti medici non siano culturalmente attrezzati a partecipare in modo informato al confronto sul modo migliore di decidere la migliore allocazione di beni sociali rivali. Il documento della SIAARTI ha il merito di rendere esplicito il fenomeno del razionamento come “scelta tragica” con cui il medico clinico, soprattutto nelle Terapie Intensive, è costretto a confrontarsi.

In molte delle discussioni sul razionamento in sanità manca la consapevolezza del quadro etico cui si fa riferimento. Ciò che è richiesto è il riconoscimento della complessità etica e del cambiamento della natura del dibattito all’interno del mondo medico.  La forza e l’importanza di tale riconoscimento sta nel renderci sensibili alla diversità morale, al pluralismo della nostra società, alla necessità di rispetto per gli altri e dei loro valori, e al bisogno di tolleranza attiva. Ciascun gruppo (medici, politici, cittadini) rischia di occupare la propria nicchia etica inconsapevole del panorama circostante. Le differenze tra le diverse prospettive tendono a essere esasperate soprattutto quando la retorica soverchia la ragione nel pubblico dibattito. Riconoscendo il valore dell’approccio multidisciplinare nella scelta delle priorità e nel processo del razionamento in sanità si contribuisce ad attenuare, anche se non a rimuovere completamente, ciò che tuttora continua a prevalere in modo disordinato: il conflitto.


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