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Carcere e rieducazione ai tempi del Covid-19

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Pochi i colloqui con i detenuti, non ne chiedono. Hanno, probabilmente, paura. La paura è collettiva ma silente: Di contrarre la malattia, di averla contratta senza saperlo, di svilupparla in futuro.
La contraddizione della certezza del tempo della pena si misura con l’incertezza dettata dal tempo dell’emergenza sanitaria, della pandemia che non presenta data di scadenza.
E così, siamo tutti invischiati nel carcere “desolato” che diventa comunità liquida e comunità del rischio, e, come teorizza Z.Bauman, liquidità imperativa che è sinomino di incertezza.
Il carcere diventa silenzioso, fa sentire con maggiore pervasività il dramma dell’umanità perché gli esseri umani che sono in carcere, lavoratori o detenuti, sono l’estensione o la rappresentazione di relazioni affettive non sempre visibili.
I responsabili del governo delle carceri dovrebbero guardare oltre quell’umanità in presenza, perché il rischio non riguarda il solo lavoratore o il ristretto “sospeso” ma si estende a quella rete invisibile delle relazioni familiari e personali, interrotta momentaneamente ai detenuti ma sussistente per gli operatori.
I funzionari pedagogici vivono la desertificazione obbligatoria delle attività istruttive e socio ricreative, vivendo l’inutilità della loro funzione in solitaria, perché l’équipe, il lavoro di squadra, è l’unico che riesce a generare coerenza di intenzione pedagogico-risocializzativa nei ristretti. Solitudine e lentezza si impongono, caratterizzazioni che per una volta diventano specchio della società, azzerando le distinzioni tra dentro e fuori. Il tempo congelato della vita esterna è identico a quello del penitenziario, un aspetto che dovrebbe far riflettere la politica, gli esperti, i sociologi e parte degli operatori nel proporre modifiche sostanziali nell’organizzazione della vita della pena del pianeta carcere.

*funzionaria giuridico pedagogica Amministrazione penitenziaria


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