Era il pomeriggio di una giornata della primavera avanzata del 2018 quando un gruppo di agenti dell’ufficio del Pubblico Ministero e del Ministero dell’Intelligence è venuto ad arrestarmi mentre ero a casa da sola. Mi hanno portato al carcere di Evin in un taxi verde. Ero stata condannata in contumacia a cinque anni di carcere per la mia attività di avvocata per i diritti delle donne e per i diritti umani. Qualche mese dopo, sono state aggiunte altre sette imputazioni, e mi hanno inflitto una pena complessiva di oltre 33 anni di carcere più 148 frustate. La più pesante di queste condanne è stata di 12 anni per “promozione dell’immoralità e dell’indecenza”.
Attualmente sono nel reparto femminile, che è composto da tre stanze e quaranta detenute. La maggior parte è stata arrestata per motivi politici. Le occupanti del reparto femminile del carcere di Evin sono attiviste dei diritti umani, attiviste dei diritti delle donne, attiviste civili e ambientali, appartenenti alle minoranze religiose e mistiche, componenti di movimenti sindacali e donne con doppia cittadinanza che sono accusate di spionaggio.
Passo le mie giornate ad esercitarmi, a dedicarmi all’artigianato, a leggere e a fare discussioni di gruppo, oltre a occuparmi delle mie faccende personali. Le domeniche sono giorni di visita e se non mi è vietato farmi visitare, posso vedere la mia famiglia.
In carcere, a volte offro a chi è interessato lezioni private sulle questioni dei diritti umani, ma, soprattutto, mi preoccupo di imparare e di insegnare agli altri la funzione delle commissioni per la verità e la riconciliazione in altri paesi.
Nessuna delle ragazze di Enghelab Street, le donne che hanno protestato contro la legge iraniana sull’hijab obbligatorio togliendosi pubblicamente il velo e sventolandolo su un bastone, è qui. Ma alcune delle mie compagne di cella sono le giovani donne che l’anno scorso, in occasione della Giornata internazionale della donna, sono andate in metropolitana a Teheran, hanno parlato con i passeggeri e hanno distribuito fiori. In un’altra occasione, loro stesse mi hanno sostenuto esibendo le mie foto nella metropolitana. Per questo motivo, hanno subito pesanti condanne che accrescono il mio senso di responsabilità.
L’Iran è un Paese dove le violazioni dei diritti delle donne sono sistematiche. Questo rende ancora più importante onorare e commemorare la Giornata internazionale della donna.
In questo giorno, penso agli anni che sono passati. Gli anni del nostro silenzio e della nostra prigionia; anni di protesta, di schiavitù e le mura dietro le quali siamo intrappolate. Ma penso anche a quest’anno, un anno di tragedia e di malattia per il popolo iraniano. È la conseguenza del ritorno dell’ostilità e dell’inimicizia. Continuo a guardare indietro e a rivedere il percorso che abbiamo fatto. Dove abbiamo sbagliato? Perché non ci siamo riusciti? Perché il nostro governo non è riuscito a governare come si deve? Perché non abbiamo saputo resistere in modo efficace e pacifico?
In questa Giornata Internazionale della Donna, mentre un virus mortale infetta il mio Paese, tendo la mano e come cittadina, con voce gentile, chiedo al governo di porre fine alla sua animosità verso il mondo, di guardare il mondo con gli occhi della pace e di fidarsi della vita e degli esseri umani. Chiedo agli attivisti per i diritti umani di aiutarci nel nostro impegno pacifico.
In particolare, tendo la mano ai cittadini americani. I nostri governi sono stati rivali per anni, con scarsa considerazione per noi.
In questo giorno dell’8 marzo, chiedo anche a tutti gli iraniani del mondo di aiutarci nella nostra ricerca della pace, aspetto fondamentale della sopravvivenza.
Buona Giornata internazionale della donna.
Nasrin Sotoudeh,
Carcere di Evin
- Lettera pubblicata in lingua inglese sul Time del 6 marzo 2020 https://bit.ly/3aB6YUK e liberamente tradotta
Nasrin Sotoudeh, 56 anni, avvocata iraniana impegnata nella tutela dei diritti umani, sposata con il giornalista Reza Khandan e madre di due figli, nel corso della sua carriera ha difeso attiviste per i diritti civili delle donne, in particolare quelle perseguite per “aver commesso un atto illegale” rifiutando di indossare l’hijab, il velo islamico, nonché minori, prigionieri politici e giornalisti, da sempre osteggiati dal regime iraniano.
Per la sua storia, la sua abnegazione per la tutela dei diritti umani ed il fatto di non aver mai ceduto alle minacce del governo iraniano nei suoi confronti, mantenendo sempre e con caparbietà il proprio esemplare coraggio nonostante le plurime detenzioni e condanne subite, è stata insignita di numerosi riconoscimenti internazionali, tra i quali, nel 2012, il Premio Sakharov del Parlamento Europeo per la libertà di pensiero, nel 2018, il Premio Ludovic Trarieux, il più antico premio conferito ogni anno dagli avvocati ad un avvocato che, con la sua attività e la sua sofferenza, si sia distinto in modo particolare per la difesa dei diritti umani, la promozione dei diritti della difesa e nel 2019 del Premio Diritti Umani del Consiglio degli Ordini Forensi d’Europa (CCBE).
Anche in Italia, dopo l’ultima abnorme condanna, la società civile e le istituzioni ed associazioni forensi si sono mobilitate per la sua scarcerazione.