di Chiara Ludovisi
Cosa sta accadendo nelle strutture a carattere familiare che ospitano persone con disabilità o minori? Lo abbiamo chiesto a Luigi Vittorio Berliri (Casa al plurale): contatti con l’esterno interrotti, dispositivi che non ci sono e operatori che, invece, ci sono sempre
ROMA – I dispositivi di protezione non ci sono, gli operatori invece ci sono sempre, “puntuali e motivati più di prima, nonostante i grandi sacrifici che abbiamo chiesto loro. Sanno di essere indispensabili e non ci pensano proprio, a fare un passo indietro”. Così Luigi Vittorio Berliri, presidente di Casa al Plurale, l’associazione che rappresenta alcune delle cooperative che, per conto del Comune, gestiscono case famiglia per persone con disabilità e minori. E’ lui ad aprirci una finestra su queste strutture, oggi che dalla casa famiglia non si può uscire e i contatti con l’esterno sono ridotti al minimo.
Primo comandamento: esserci
Il primo imperativo è continuare ad esserci. “E gli operatori ci sono, nessuno, che io sappia, si sta tirando indietro. Sono entusiasti del loro lavoro e con grande coraggio accettano anche il rischio, in questo momento, consapevoli di essere indispensabili, oggi più che mai. E’ il momento del coraggio, come quando il pompiere si butta nel fuoco: se fa un passo indietro, deve cambiare mestiere”. E così gli operatori accettano anche “la nostra ingerenza nella loro vita privata, resa necessaria dalle circostanze attuali: abbiamo chiesto loro di limitare al massimo i contatti con l’esterno. Per esempio, in molti casi ordiniamo e ci facciamo consegnare in casa famiglia la spesa anche per loro, per evitare che vadano al supermercato. Se si muovono abitualmente con i mezzi pubblici, chiediamo loro di venire a piedi, laddove possibile. Oppure, mettiamo a disposizione un’auto. Dobbiamo farlo, per evitare che il virus entri nelle nostre case”. Ma come si spiega, allora, che l’assistenza domiciliare, invece, quella preso le case delle famiglie, proceda invece a singhiozzo, con operatori sempre più assenti e genitori sempre più soli? Berliri suggerisce una risposta: “So che il sindacato ha detto agli operatori di rifiutarsi di andare al lavoro, in assenza dei dispositivi di protezione. Ma in casa famiglia l’operatore è vitale, nel vero senso della parola: se lui non viene, le persone muoiono in poche ore”.
Proteggersi per proteggere: non è per niente facile
Secondo punto, la sicurezza. “I dispositivi sono introvabili. Alcuni ci dovrebbero essere consegnati venerdì, altri la settimana prossima. Per ora siamo letteralmente a mani nude. Anche con i dispositivi, comunque, la situazione resterà complessa, perché in molti casi non è possibile rispettare la distanza di un metro, con persone che devono essere imboccate, vestite, accudite. E poi, non si riesce a chiedere a una persona con autismo, o con disabilità intellettiva, di indossare una mascherina sul viso. La preoccupazione è quindi molto alta”. Qui più che altrove, però, è indispensabile nasconderla, questa preoccupazione: “Quando hai a che fare con una persona fragile, non puoi dirle che hai paura, come possiamo dircelo noi. Devi dire sul serio che ‘andrà tutto bene’ e crederci profondamente, queste persone ti leggono negli occhi”.
Le ricette per i farmaci
Terzo punto, le medicine. “Ho scritto all’assessore regionale alla Salute D’Amato, facendo presente che le persone con disabilità hanno bisogno di molte medicine. La nostra farmacista ce le porta in giardino, ma occorre andare a prendere la ricetta nello studio medico, perché quella dematerializzata nel Lazio ancora non funziona. Soprattutto la prescrizione di alcuni farmaci deve essere firmata personalmente dal medico: su questo credo sia necessaria una deroga, come ho chiesto anche anche all’assessore. Avremo qualche truffa in più, forse, ma certamente molti contagi in meno”.
I familiari e le torte lasciate in giardino
E poi c’è la questione, drammatica, della socialità interrotta. “Le persone con disabilità sono abitudinarie: il centro diurno, il laboratorio sono appuntamenti per loro particolarmente importanti. Il compito della casa famiglia è sempre stato quello di accompagnare le persone a uscire di casa: ora gli diciamo il contrario. Restare a casa è uno stress, che però condividono con tutto il resto del mondo, anche se indubbiamente amplificato”. Anche i familiari non entrano più nelle case famiglia: “Abbiamo spiegato, tanto ai nostri utenti quanto alle loro famiglie, che questa misura serve per la loro sicurezza e protezione. Temevamo che i familiari si ribellassero, ci criticassero, insomma reagissero male. Sapete come hanno risposto? Lasciandoci in giardino crostate e biscotti, per ringraziarci”.
Riconoscenza, ma sopratutto riconoscimento
Il pensiero allora va al futuro e quello che il presente potrà insegnare e lasciare in eredità. “Mai come in questo momento ci rendiamo conto che alcuni servizi sono essenziali: tra questi, le case famiglia. Se domani ne chiudessimo una, o se un operatore si licenziasse, che farebbero queste persone? Sono questi i nodi che vengono al pettine oggi. Allora credo che ci vorrebbe un ‘grazie’, da parte delle istituzioni, per ciascuno di questi operatori, perché mentre tutti restano a casa loro vanno al lavoro. Ma siccome lo fanno per mestiere e non per spirito caritatevole, la seconda richiesta è che la loro professionalità e le loro competenze siano riconosciute come lavoro e adeguatamente retribuire. Vorrei che oggi si dicesse a ciascun operatore che alla fine del tunnel in cui si trova oggi, troverà la risposta che attende da vent’anni”.