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Patrick Zaki, la dignità della rivolta

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Bisogna tenere accesa la luce e i riflettori su quanto sta accadendo in Egitto, dove da diverse settimane è detenuto, e a quanto pare torturato, Patrick Zaki.
Sarebbe opportuno che il governo italiano, anche in virtù di ciò che accadde quattro anni fa, quando venne rapito, torturato e ucciso Giulio Regeni, richiamasse l’ambasciatore e facesse sentire forte e chiara la propria voce perché non è vero affatto che il nostro Paese non abbia il diritto di interferire sulle vicende egiziane non essendo Zaki italiano. Patrick George Zaki studia all’Alma Mater Studiorum di Bologna, risiede in Italia e abbiamo il diritto, anzi il dovere, di interessarci delle sue sorti e di esercitare la massima pressione possibile affinché venga liberato e restituito quanto prima all’affetto dei suoi cari. Non solo: abbiamo il diritto, anzi il dovere, di ricordare all’Egitto che l’Unione Europea prevede delle precise regole in materia di diritti umani e che esse non possono essere violate arbitrariamente da chi voglia essere nostro interlocutore. Già, sarebbe bello se l’Europa prendesse una posizione chiara e decisa, se non solo il nostro governo ma anche gli altri esecutivi del Vecchio Continente facessero sentire la propria voce e se tutti i commissari europei, a cominciare da coloro che, al momento dell’insediamento, intonarono Bella ciao, prendessero posizione in merito, seguendo il lodevole esempio del presidente Sassoli.

Perché intonare Bella ciao all’esordio, per farsi belli e prendere le distanze dalle brutture di una destra oggettivamente impresentabile, non basta; anzi, se non suffragato da fatti concreti, suona alquanto ipocrita. Ipocrita e persino crudele, soprattutto se si pensa che quella canzone è diventata l’icona mondiale della resistenza contro ogni forma di fascismo, di orrore e di violenza. Non basta dirsi partigiani su Facebook, in tv o in conferenza stampa se poi non ci si comporta di conseguenza, se non si freme di sdegno di fronte a un arresto arbitrario, supportato da prove ridicole, condotto con un’arroganza insostenibile, senza fornire risposte, senza alcuna garanzia per l’imputato e senza lasciar trapelare una sola notizia certa circa le sue condizioni di salute. Non basta se l’Europa non è disposta, all’unisono, a ritirare i propri ambasciatori dall’Egitto, se l’Unione Europea non è pronta a interrompere i rapporti commerciali, se l’Italia non è in grado di esercitare il suo ruolo di potenza mediterranea, ricordando a tutti che stiamo parlando di un paese del G7 e che nessuno può pensare di scherzare su questioni cruciali come la vita umana.
Non si tratta di rivendicazioni di matrice coloniale né di mancanza di rispetto nei confronti del sacro principio di autodeterminazione dei popoli. Si tratta di avere una politica estera e non un simulacro di essa. Significa assicurare un futuro al concetto stesso di giustizia. Significa riaffermare il principio in base al quale chi viene a vivere in Italia è comunque, almeno in parte, italiano, dunque non rapibile, torturabile, violentabile o, peggio ancora, assassinabile senza che nessuno alzi la voce e richiami una dittatura feroce al rispetto dei diritti umani, dimostrando, se necessario, di essere pronti ad andare fino in fondo.

Il silenzio, questo triste, vuoto, imbarazzante silenzio è inammissibile. Questo modo di agire, ad opera dell’esecutivo, e in particolare del ministro degli Esteri, non è accettabile. Dicemmo lo stesso nel 2016, quando il presidente del Consiglio si chiamava Renzi, il ministro degli Esteri Gentiloni e il caso Regeni avrebbe meritato ben altra attenzione e ben altro tatto. E dicemmo assai di peggio quando, il giorno di Ferragosto del 2017, seguendo il triste esempio del democristiano Vito Lattanzio, che esattamente quarant’anni prima, da ministro della Difesa, si era lasciato scappare Kappler dall’ospedale militare del Celio, il presidente Gentiloni, sempre lui, rimandò l’ambasciatore in Egitto, con buona pace dei genitori di Giulio che da anni chiedono invano giustizia e verità, o quanto meno un minimo di effettiva considerazione, per il figlio trucidato.
Giulio, al pari di Patrick, ci ricorda che scegliere l’aspetto commerciale a scapito della dignità umana non è solo indecente ma anche controproducente, in quanto ci squalifica e ci fa apparire debolissimi agli occhi del mondo. Un paese incapace di difendere i propri cittadini, autoctoni o acquisiti che siano, non è infatti credibile nel contesto internazionale. E lo stesso vale per l’Europa perché se Giulio o Patrick fossero stati americani o cinesi o russi, indigeni o d’importazione non fa differenza, state certi che sarebbero tornati indietro sani e salvi. Ed è soprattutto da questi particolari che si comprende il peso specifico, e di conseguenza il ruolo globale, di una nazione.


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