Mirella Freni, il diapason di ogni orchestra

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Quando misi per la prima volta piede nel più glorioso teatro della mia città d’adozione andava in scena un’opera del cosiddetto Verdi minore, Ernani, e ricordo che rimasi colpito dal fatto che il maestro Riccardo Muti dirigesse senza perdere di vista, neppure per un attimo, i vari cantanti che si alternavano sul palco, eccezion fatta che per il soprano, la quale sembrava invece cantare a memoria, senza bisogno di sintonizzarsi con l’accompagnamento orchestrale.

Si trattava, ma allora non lo sapevo, dell’ultimo capitolo di un decennio irripetibile che, grazie a registi come Giorgio Strehler, Luca Ronconi e Franco Zeffirelli e a direttori come Claudio Abbado e Carlos Kleiber, aveva prodotto in quel teatro alcuni spettacoli verdiani destinati a rimanere nella Storia: Simon Boccanegra, Macbeth, Don Carlo, La Forza del destino e Falstaff.

In ben tre di quei cinque memorabili allestimenti, il soprano prescelto era stata quella che quella sera stava cantando Elvira, la modenese Mirella Freni, la cui suprema grandezza artistica ancora oggi la si può ammirare nei video di quegli storici spettacoli che da sempre circolano tra gli appassionati.

Quella sera ricordo che non mancarono in loggione alcune contestazioni che non risparmiarono neppure Mirella Freni, ma era il 1982, e si vede che allora il viziato pubblico scaligero era abituato bene, perché oggi basta ascoltare il CD EMI di quell’edizione per rendersi conto di quale livello eccelso, e mai più ripetuto, seppe raggiungere anche quell’ennesimo grande spettacolo degli anni d’oro della sala del Piermarini.

La principale caratteristica di Mirella Freni, salita alla ribalta nei primi anni Sessanta, quando la concorrenza era a dir poco spietata (basti pensare che erano in piena carriera calibri come Renata Tebaldi, Joan Sutherland, Renata Scotto, Leila Gencer, Leontyne Price, Elena Souliotis, Antonetta Stella, Magda Olivero, Raina Kabaiwanska e Montserrat Caballé), fu quella apparentemente più banale, eppure così difficile da realizzare, ovvero di cantare sempre “da padreterna”.

Si trattasse di Mimì di Bohème o di Elvira dei Puritani, di Amelia del Simon Boccanegra o di Susanna delle Nozze di Figaro, oppure di incidere Tosca o La Forza del destino, opere che sulla carta non avrebbero potuto essere più distanti dalla sua organizzazione vocale, il canto di Mirella Freni risulta sempre non meno che perfetto.

Alcune incisioni, in particolar modo quelle della prima fase della carriera e dirette da Herbert Von Karajan, come Carmen, Bohème e Madama Butterfly, sono ancora oggi un caposaldo obbligato della discografia di ogni amante dell’opera, ma anche nelle successive escursioni in capolavori del tutto diversi per stile e musicalità, come Eugenio Onegin, Dama di Picche, Adriana Lecouvrer, il Trittico pucciniano e Fedora, Mirella Freni ha lasciato una traccia indelebile nell’arte del canto.

Non credo abbia mai emesso, nel corso della sua lunga e onerosa carriera, un suono men che perfetto, e anche l’ascolto a distanza di anni del nastro live di quella “famigerata” Traviata scaligera del 1964, ci fa solo rimpiangere di non avere oggi una Violetta di tale levatura.

In pratica, e per rendere l’idea a chi non ha avuto la fortuna di ascoltarla in disco o in teatro, Mirella Freni era il diapason di ogni orchestra; ovvio che una cantante così abbia rappresentato ai tempi una sorta di miracolo “dal ciel disceso” per ogni direttore, perché con la tecnica vocale a prova di bomba che aveva saputo costruirsi e preservarsi nel corso degli anni, era in grado di eseguire alla perfezione ogni intenzione musicale che le venisse proposta.

E se è vero, come si narra, che non sapesse leggere a prima vista uno spartito, allora non resta che tributare il doveroso omaggio all’artista dotata dell’orecchio musicale, così si dice in gergo, più straordinario della storia del teatro lirico, e sempre la leggenda narra che venne allattata dalla medesima balia del conterraneo Luciano Pavarotti.

Se così fosse, non ci resta che ringraziare in eterno chi ebbe a somministrare quel latte magico, perché si tratto di un vero e proprio elisir d’amore, per ricordare una delle opere in cui entrambi dettero il meglio, per chiunque coltiva la passione per la musica e per la voce umana.


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