Sono al Nord, in una tranquilla parte fuori da zone rosse. La signora del B&B mi accoglie con guanti di lattice e mascherina, tutta vestita di bianco. Istintivamente penso che nella graziosa struttura di accoglienza ci sia anche una sala operatoria, da dove si sia momentaneamente allontanata la ostessa-chirurga che ho davanti mentre era in corso un intervento a cuore aperto, per darmi le chiavi della stanza e spigarmi come funziona la caffettiera. Mi chiede subito la provenienza (Roma le sta bene). Con un sorriso solo occhi che si affaccia dalla mascherina, si scusa e spiega la necessità di tanto rigore.
Poi detta la “procedura” per la tazza che userò per il cappuccino: “La dovrà mettere là, perché quella è la zona degli oggetti da trattare con un disinfettante speciale”. Nonostante un po’ di infiammazione alla gola, mi sforzo come un matto per non tossire. Se mi sfuggisse un solo colpo, m’immagino lo sguardo imperativo dell’ostessa verso una telecamera nascosta e l’irruzione di una squadra di accalappia-untori tutti in bianco pure loro, che mi catturerebbe con un retino in testa, immobilizzandomi e segregandomi in un buio anfratto insieme a legna accatastata, ragnatele e una vecchia bicicletta arrugginita. E’ la prima volta che mi sento oggetto di diffidenza sanitaria. Capisco, ma spero che tutto questo finisca presto.
Iscriviti alla Newsletter di Articolo21