Mi auguro che altri ricorderanno degnamente, e per quel che merita, l’attore e l’artista, “irregolare” ma di struggente talento, che avevano dimora fra corpo, inconscio e intelletto di Flavio Bucci. Ma, quasi certo che altri non lo faranno, vorrei provvedere in prima persona di ricordarlo per il suo ‘fare teatro’. Avendo avuto modo – non fortuitamente, ma perché attratto da quel suo modo sghembo, saturnale, ‘disagevole’ di introiettare il personaggio- di seguirne gran parte della non irrisoria, ma ‘sistematicamente’ dispersiva, carriera scenica.
Nato a Torino nel 1947, già da ragazzo aveva frequentato con famelica curiosità gli ambienti del locale Teatro Stabile, allora diretto da due assi dell’imprenditoria di settore: Vico Faggi e Ivo Chiesa. Poi, avventurandosi a Roma nel 1968, allievo di Ruggero Jacobbi (altro ‘grande’ della regia e della didattica di cui dovremmo andar fieri, rileggendo ad esempio “L’avventura del Novecento”), Flavio Bucci è scritturato, lo stesso anno per “L’arcitreno” del surreale Silvano Ambrogi.
Apprezzato dalla critica e ben accetto dal pubblico, inizia così una non lunga ma pregnante avventura di spettacoli dal vivo, di città in città, che annovererà titoli quali “Peer Gynt” di Ibsen, “Amleto” di Shakespeare, “Il principe” da Machiavelli, sempre in ruoli da comprimario, ma tutti di forte spessore ed evidenza.
Appropriandosi con intelligenza del televisivo successo di “Ligabue” (dove è diretto da Salvatore Nocita), Bucci, nel 1978, ha l’estro, il fascino stralunato, la smarrita ‘innocenza’ (già declinata all’auto-lesività) dello ‘spudorato’, sarcastico “Don Chisciotte” diretto da Armando Pugliese – ove si accentua la natura farneticante, eversivo-patologica del più grande dei disadattati scaturito dalla barocca fantasia di Cervantes. Nel 1984, ancora in ascesa, l’interprete è protagonista e regista de “Il re muore” di Jonesco (attualizzato al ‘contemporaneo’), inserito nel prestigioso cartellone del Festival di Spoleto, allora diretto da Giancarlo Menotti.
Nel 1990 egli approderà al repertorio classico con “Empedocle” di Holderlin (regia di Melo Freni) ed al pirandelliano “Cecè” (Teatro Greco di Taormina) elaborato in versione dissacrante, parodistica, ma stilisticamente impeccabile, vigilata, coerente da cima a fondo (nel dar vita al perdigiorno che, per fare prima, inizia “col perdere se stesso”). Prodigandosi anche – e marcando i toni dell’eccessività a lui consoni- in “Opinioni di un clown” di Heinrich Böll e Le “Memorie di un pazzo” di Gogol’.
Seguiranno, con a fianco l’ex moglie Micaela Pignatelli, le prove sostanzialmente compatte (e intinte, con rispetto, al genio intangibile di Pirandello) de “Il fu Mattia Pascal” e de “l’Uomo, la Bestia, la Virtù”, in due edizione che, dalla metà degli anni ’90, ebbero una proficua tournée, purtroppo angariata dal rapporto coniugale che andava deteriorandosi.
Vi fu anche il tempo, per Bucci, di prodigarsi, in altri tre spettacoli di buon valore: “Chi ha paura di Virginia Woolf?” (regia di Marco Mattolini), “Riccardo III” e “Quaderni di Serafino Gubbio operatore” (regia di Mario Missiroli). Tornando a recitare – dopo anni di assenza- con lo spettacolo dedicato a Giacomo Leopardi “Che fai tu luna in ciel”, diretto da Marco Mattolini e affiancato dalla danzatrice Gloria Pomardi e dalla pianista Alessandra Celletti.
Persi di vista Flavio Bucci poco prima del nuovo millennio, per poi ritrovarlo- la scorsa estate- in una sorta di “confessione in pubblico” (in un teatro all’aperto della periferia romana) dove si chiedeva con disarmato candore – e chiedeva a noi- “dov’è che mi sono perso?”. Nessuno osò rispondere che la ‘cupio dissolvi’ taluni se la portano dentro, sin dall’infanzia, a marchio bipolare ed eclettico, di una buia “Patente” (o “lLettera scarlatta”) impressa nel Dna.
Buona notte, caro Flavio. E che tutto il resto (se mai ci sarà) ti sia per un grammo benigno.