Articolo tratto da Nev-Notizie evangeliche
di Barbara Battaglia
Il 27 febbraio 1960 la morte dell’ingegnere antifascista, imprenditore e politico di Ivrea, figlio di un ebreo e di una valdese, le cui idee furono profondamente influenzate dall’etica protestante
60 anni fa a Ivrea non si festeggiò il Carnevale, quello della battaglia delle arance. La città piemontese era in lutto, perchè il 27 febbraio 1960 moriva in Svizzera, durante un viaggio in treno da Milano a Losanna, Adriano Olivetti.
«Abbiamo portato in tutti i villaggi le nostre armi segrete: i libri, i corsi, le opere dell’ingegno e dell’arte. Noi crediamo nella virtù rivoluzionaria della cultura che dona all’uomo il suo vero potere». Queste sue storiche parole sono state scelte dalla Fondazione a lui intitolata per promuovere una delle tante iniziative in memoria e nel solco del grande industriale, le “Lezioni olivettiane”.
Era nato a Ivrea, in Piemonte, nel 1901, figlio di Camillo, ebreo, mentre la mamma, Luisa Revel, era valdese. Il nonno dell’imprenditore, padre di Luisa, era il pastore di Ivrea, Daniele dei Revel di Torre Pellice. Proprio grazie ad un certificato di battesimo valdese riuscì a sfuggire alle persecuzioni antisemite.
Dopo la morte della madre valdese nel 1944, «venne a cessare la ragione sentimentale e umana che mi tratteneva – ricordò però egli stesso, come scrive Davide Cadeddu in un articolo su Avvenire – dall’entrare nella Chiesa che da un punto di vista teologico era nella mia coscienza certamente l’unica universale e quindi eterna: la Chiesa Cattolica».
La storia di Olivetti si intrecciò ripetutamente con il mondo – e soprattutto con l’etica – protestante. Fu infatti amico di un altro ingegnere antifascista, un eroe valdese, Guglielmo detto Willy Jervis, che proprio nello stabilimento di Ivrea, dopo l’8 settembre 1943, diventa membro del Comitato di Liberazione Nazionale e, scrive il giornaliero trimestrale L’ora del pellice, «si prodiga per aiutare ebrei e prigionieri alleati in fuga dai campi di prigionia. Colpito da ordine di cattura, si rifugiò prima a Villa Ambrosetti, la residenza di Adriano Olivetti, poi a Torre Pellice.
Di ritorno da una missione informativa in Val Germanasca, l’11 marzo 1944, Willy Jervis viene catturato dalle SS italiane al ponte di Bibiana. Ha con sé un candelotto di dinamite e altro materiale compromettente. Picchiato duramente nella caserma di Luserna San Giovanni, poi trasferito a Torino, non fornisce alcuna informazione utile ai suoi aguzzini. Nonostante diversi tentativi diplomatici per ottenerne la liberazione, da parte del Comando partigiano e della stessa Olivetti, il 4 agosto è trasportato a Torre Pellice, alla Caserma Ribet, in attesa di essere ucciso a colpi di mitra, la notte tra il 5 e il 6 agosto, sulla piazza di Villar Pellice che oggi porta il suo nome (così come il rifugio all’imbocco della Conca del Pra)».
Tante le tappe, i momenti che passeranno alla storia del Paese, della biografia personale ed industriale del filantropo, ne ricordiamo solo alcune, citate dal sito Le città di Olivetti: nel 1945 pubblica “L’ordine politico delle Comunità” in cui teorizza un’organizzazione del paese fondata su unità territoriali culturalmente omogenee e economicamente autonome (la “Comunità”); nel 1948 fonda a Torino il “Movimento Comunità” impegnandosi affinché possa realizzarsi la sua visione di “Comunità” in Canavese (Torino); nel 1953 apre uno stabilimento a Pozzuoli e nel 1956 l’Olivetti riduce l’orario di lavoro da 48 a 45 ore settimanali a parità di salario, così anticipando di numerosi anni, quello che poi, a livello nazionale, verrà raggiunto con i contratti collettivi di lavoro.
Ma dietro a tutte queste conquiste ed innovazioni c’era soprattutto un pensiero, rivoluzionario e però praticabile. In un passaggio del discorso pronunciato nel 1956 in occasione del VI Congresso dell’Istituto Nazionale di Urbanistica, pubblicato nel 1959 con il titolo “Noi sogniamo il silenzio”, Olivetti afferma: «Non direi con questo che la nostra disciplina postuli rivoluzioni impossibili e s’inoltri sugli infidi sentieri dell’utopia». Il manager di Ivrea voleva «rendere la fabbrica e l’ambiente circostante economicamente solidali” consapevole che essa non è “un puro organismo economico, ma un organismo sociale che condiziona la vita di chi contribuisce alla sua efficienza e al suo sviluppo».
Quella che Zygmunt Bauman chiamerà “voglia di comunità” o ancora “La Comunità che viene” come dirà nel 1990 Giorgio Agamben.