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Kirk Douglas, il mito che sembrava non dover morire mai

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Quando abbiamo appreso la notizia della morte di Kirk Douglas, alla considerevole età di centotre anni, ci siamo domandati se fosse vera. Perché il vecchio Kirk era una di quelle figure destinate, nell’immaginario collettivo, all’immortalità, un uomo senza tempo, una stella che ha attraversato tutte le epoche senza mai smarrire la propria freschezza, il proprio garbo e la grandezza che l’ha reso uno degli attori più celebri a Hollywood e nel mondo.
Nato Issur Danielovitch, figlio di due emigrati ebrei bielorussi, cambiò il proprio nome in Isadore Demsky, ma il produttore Guthrie McClintic, che lo aveva scritturato per Broadway, gli consigliò di scegliere un nome d’arte che potesse attrarre maggiormente il pubblico e così divenne Kirk, dal nome di uno dei personaggi dei fumetti che amava maggiormente, e Douglas, dal cognome della sua insegnante di dizione all’accademia.
Inutile dire cosa abbia rappresentato Douglas nella storia del cinema. Basti citare alcuni titoli: dall'”Ulisse” di Mario Camerini a kolossal come “Spartacus”, senza dimenticare “L’asso nella manica” di Billy Wilder e “Sfida all’O.K. Corral” di John Sturges, in cui interpretava la parte di Doc Holiday al fianco di Burt Lancaster, nel ruolo dello sceriffo Wyatt Earp. E queste sono solo alcune delle pietre miliari del grande schermo in cui la sua bravura ha fatto la differenza.
L’aspetto più sorprendente della sua biografia è che ha saputo anche uscire di scena da gran signore, come del resto aveva sempre vissuto, senza strepiti né rimpianti né nostalgia né pentimenti, godendosi i successi del figlio Michael e vivendo di dolcissimi ricordi gli ultimi anni di una vita splendida. Lunga, intensa, prodiga di soddisfazioni e caratterizzata da tanto amore e meritorie battaglie, come quella contro la schiavitù e le sue conseguenze nella controversa vicenda americana.
Ci dice addio un uomo, prim’ancora che un divo, di cui abbiamo avuto l’onore di essere contemporanei. E d’ora in poi non potremo più sorridere al cospetto della sua presunta eternità perché il grande, incredibile viaggio di questo highlander, forse l’ultimo rimasto, si è concluso ieri al termine di un’epopea degna, a sua volta, di un affresco hollywoodiano. Era nato per recitare e forse, d’ora in poi, per essere egli stesso il soggetto di un film. Il secolo americano raccontato attraverso gli occhi di uno dei suoi migliori interpreti. Qualcuno oltreoceano ci starà già pensando.

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