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Il passaporto del virus

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Lo stupore credo che sia il sentimento dominante di fronte all’improvvisa apparizione di focolai di contagio da coronavirus in alcune zone del nostro paese, così come non si può rimanere stupiti di fronte alle misure straordinarie adottate dalle autorità. Con un decreto legge emesso la notte del 23 febbraio è stata disposta la messa in quarantena di dieci comuni in Lombardia e di un comune in Veneto e sono state previste  misure inusitate, applicate in Lombardia e Veneto (e parzialmente in altre Regioni), di chiusura generalizzata delle scuole, dei musei, degli esercizi pubblici, nonché la  “sospensione di manifestazioni o iniziative di qualsiasi natura, di eventi e di ogni forma di riunione in luogo pubblico o privato, anche di carattere culturale, ludico, sportivo e religioso, anche se svolti in luoghi chiusi aperti al pubblico”.

Si tratta di misure che incidono molto pesantemente sulla libertà personale e sull’economia, molto simili a quelle che, su scala molto più vasta, sono state adottate in Cina per contenere la diffusione dell’epidemia. La semplice comunicazione di queste misure, riprese e rilanciate dai mass media, ha creato una diffusa sensazione di insicurezza, se non di panico, testimoniata dalla corsa ad accaparrarsi le mascherine di protezione ed i prodotti per l’igiene delle mani. Questo clima di isteria ha dato la stura ad una serie di provvedimenti balzani che oscillano fra il ridicolo ed il demenziale, come il tentativo di alcuni sindaci di Ischia di imporre la quarantena, all’atto dello sbarco dei traghetti, ai cittadini lombardi e veneti rivelandosi un ottimo terreno di coltura per un virus molto più pericoloso: quello della discriminazione. In questa classifica la palma spetta ex equo al Governatore del Friuli Venezia Giulia Fedriga, che ha disposto la quarantena per tutti gli immigrati irregolari che venissero rintracciati nel territorio regionale, ed al Governatore della Sicilia Musumeci, che pretendeva di impedire lo sbarco e di trattenere in quarantena sulla nave i 194 migranti sbarcati ieri a Messina dalla Sea Watch.

Il 31 dicembre 2019 la Cina aveva segnalato all’Organizzazione Mondiale della sanità l’insorgere di un’epidemia di un nuovo coronavirus nella città di Wuhan, nella provincia cinese di Hubei. Da allora lo sviluppo dell’epidemia è stato seguito con apprensione in tutto il mondo. I nostri sovranisti si sono sbracciati invocando la chiusura delle frontiere, l’allontanamento dalle scuole degli studenti provenienti dalla Cina, il divieto di sbarco per i profughi recuperati in alto mare dalle navi ONG, la sospensione degli accordi di Schengen. E’ stato tutto un cantare: non passa lo straniero.

Per una strana bizzarria della sorte l’Italia è divenuto il terzo paese nel mondo per i focolai d’infezione da COVID-19. Adesso le frontiere vengono chiuse agli italiani che viaggiano all’estero. E’ di ieri la notizia di 56 italiani bloccati all’arrivo in Israele e rimandati indietro e misure analoghe si paventano in altri paesi se si pensi che persino il Parlamento europeo ha raccomandato ai deputati italiani di stare alla larga o di mettersi in quarantena volontaria.

Il problema è che il virus non ha bisogno del passaporto per varcare le frontiere e non incontra ostacoli di lingue, di religione o di etnie. Per questo l’epidemia del coronavirus è uno degli indicatori  più potenti che falsifica la narrazione dei sovranismi. Alla base delle politiche nazionaliste c’è l’illusione che ciascuna nazione, ciascun gruppo etnico possa avere un destino separato da quello di tutti gli altri. Questo ci porta a rinchiuderci nell’egoismo dei nostri interessi particolari e a rimanere indifferenti al destino degli altri, come se questo destino non potesse mai riguardarci. I disastri prodotti dalle guerre, dalle carestie, dall’inquinamento, dai cambiamenti climatici, non possono essere confinati alzando delle barriere sempre più spesse, metaforiche o fisiche, come il muro di Trump al confine con il Messico. Tutta l’umanità vive sotto lo stesso cielo, non possiamo pretendere di  salvarci da soli. L’epidemia da coronavirus ci dimostra che i problemi dell’umanità sono globali, per cui i mali che affliggono un’altra popolazione, anche se lontana, ci riguardano e, prima o poi ci presentano il conto se non saremo capaci  di reagire costruendo un tessuto di solidarietà fra i popoli e di mutua comprensione.


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