Proprio come il Grande Torino, anche Faber non è morto: ventuno anni fa ha avuto la cattiva idea di andare in trasferta. Per il resto, ci piace immaginarlo ancora qui, in tutta la sua bellezza artistica, con i suoi ottant’anni compiuti oggi, la sua poesia immortale, le sue canzoni destinate all’eternità, la sua irriverenza e il suo grido in favore degli ultimi, dei poveri e degli oppressi che, in una società così violenta, malvagia ed escludente, è aria pura per chiunque non si riconosca nel cattiverio imperante.
Faber è sempre stato un magnifico irregolare, innamorato delle prostitute, dei bassi, dei vicoli, delle zone in cui il sole non arriva mai e persino il buon Dio fatica a entrare. È stato il cantore di Tenco e di Pasolini, degli sconfitti, dei derelitti, dei diseredati, dei criminali, dei pessimi e degli assassini. Un falegname di parole che non tracciava mai giudizi, così diverso dal non pensiero attualmente in auge, così unico, così grande da essere stato trasformato in ciò che non sarebbe mai voluto diventare: un santino buono per tutte le stagioni e tutte le rivendicazioni, citato a sproposito persino da chi si comporta esattamente all’opposto di come si sarebbe comportato lui in ogni circostanza. Del resto, questo è uno dei mali della nostra società: il conformismo, l’appiattimento, l’assenza di un pensiero critico, di quegli spiriti ribelli e anticonvenzionali che hanno reso straordinaria la canzone italiana, di quei protagonisti della rivolta intellettuale che hanno portato avanti idee tabù e, grazie a questo, reso migliore una società un tempo bigotta e drammaticamente conservatrice.
Faber ha smosso le coscienze, destato scandalo, corroso le fondamenta inique di una società patriarcale e intollerante, attaccato i benpensanti, difeso gli indiani d’America, gridato a voce alta là dove tanti, troppi altri tacevano, inchiodato tutti alle proprie responsabilità e remato sempre, e con orgoglio, in direzione ostinata e contraria.
Non ha mai preteso di piacere a tutti, anzi. Non si è mai schierato con nessuno perché era anarchico dentro ma ha unito tutti coloro che non ne potevano più dell’ordine costituito, delle sue gabbie, delle sue regole prive di senso, della sua crudeltà e degli innumerevoli pregiudizi che caratterizzavano una certa borghesia benestante, autoreferenziale come non mai e fiera del proprio odio di classe.
Faber ha combattuto finché ha potuto, prima di essere vinto dal cancro che se l’è portato via, e combatte ancora, anche se non canta più, non si vede più, non può più dispensare la sua arte inarrivabile e profondamente urticante. E molti di coloro che oggi lodano l’intellettuale che non può difendersi dalla loro ipocrisia, se fosse ancora qui, lo massacrerebbero, in quest’epoca piccola, meschina, asfittica, in cui il nulla prevale sui contenuti e la ferocia imperversa pressoché ovunque.
“Signori benpensanti, spero non vi dispiaccia”, ma voi a De André fareste profondamente schifo e, di sicuro, ci terrebbe a farvelo sapere. Lo offendete ogni giorno con i vostri elogi posticci ma il suo disprezzo nei vostri confronti si percepisce eccome. Perché “anche se voi vi credete assolti, siete lo stesso coinvolti”.
P.S. Auguri di cuore al magnifico quartiere romano della Garbatella! Cent’anni e non sentirli…
P.S. 2 Addio a Flavio Bucci, un altro protagonista della stagione migliore del cinema italiano che purtroppo se ne va.
Iscriviti alla Newsletter di Articolo21