Fino a qualche tempo fa i partiti si lavavano pubblicamente la coscienza con lo slogan “fuori i partiti dalla Rai”, anche se poi erano gli stessi che si spartivano le nomine. Ma perlomeno facevano un po’ finta e comunque sembravano consapevoli non dico del problema ma quantomeno del tema. Oggi neanche più questo. Né da parte dei partiti presenti in Parlamento né – bisogna dire – da parte della maggioranza degli organi di stampa. Quello che fa impressione negli articoli usciti in questi giorni e relativi alle proposte di nomina dei nuovi direttori di Rete e di struttura da parte dell’amministratore delegato della Rai, è che tutta l’attenzione sia dedicata al favore riservato a questo o quel candidato da parte di questo o quel partito e l’unica caratteristica rilevante individuata per ciascun “candidato” sia la sua appartenenza o “vicinanza” a questo o quel partito. E che proprio l’appartenenza o la vicinanza a questo o quel partito sarebbero la garanzia di un fantomatico pluralismo. Vicino ai nomi compare solo la sigla di un partito e pare non interessi a nessuno sapere chi è quella persona e quale progetto abbia per la struttura che dovrebbe dirigere (sempre che ce l’abbia).
Credo che nessuno in buona fede possa credere e sostenere che un pluralismo reale dipenda da chi va dove e dirige cosa. La lottizzazione e più in generale il controllo di tutta la comunicazione e della produzione culturale hanno possibilità di esistere e di rafforzarsi man mano che si accentrano i poteri in poche mani, che si eliminano tutte le “regole” in grado di garantire autonomia culturale e libertà creativa, man mano che si preclude qualsiasi possibilità di partecipazione alla gestione e di verifica democratica da parte delle forze sociali, culturali e professionali.
Ma ormai anche, o forse soprattutto, nei settori della produzione culturale e artistica e dell’informazione la “barbarie culturale” di oggi non conosce limiti né tantomeno pudore. E allora forse è utile ricordare alcune tappe della formazione di questa “barbarie”. Il primo segnale viene con quella che fu chiamata la “Rai dei professori”, con la nomina di Demattè (docente di strategia aziendale) a presidente della Rai che pensò bene, per ridurre le aree considerate “non produttive”, di chiudere moltissime strutture provocando per protesta le dimissioni di Sandro Curzi da direttore del Tg3 e di Angelo Guglielmi da direttore della Terza rete. Era l’inizio della fine di un servizio pubblico radiotelevisivo affidato alla gestione di personalità della cultura e della produzione artistica e del passaggio definitivo alle gestioni “imprenditoriali”.
La formalizzazione di questo passaggio è tutta di Bassanini che pensa bene di eliminare il ministero delle Comunicazioni per accorparlo con quello delle Attività produttive poi diventato dello Sviluppo economico. Ci penserà il governo Prodi ad inserire nella finanziaria l’accettazione della riforma Bassanini e il governo Berlusconi IV a metterla in atto. Riforma che ha di fondo l’idea che la più grande azienda culturale italiana – oltretutto pubblica – cioè la più grande azienda produttrice di senso debba rispondere ai criteri che regolano qualunque attività produttiva e quindi vada trasformata in modo tale che il suo fine ultimo sia il successo sul mercato e lo sviluppo economico e non la crescita culturale e dunque sociale del paese. E questo ragionamento vale anche per le aziende private che producono cultura e informazione. Un tempo si diceva – e si scriveva nelle direttive europee – che anche le televisioni private devono rispondere ai criteri del “servizio pubblico” proprio perché produttrici di “senso”. Non è più vero. Siamo evidentemente arrivati al totale rovesciamento di quella idea e a ritenere quindi che, come i privati, anche l’azienda pubblica debba rispondere e sottostare alle regole e ai meccanismi del mercato e lavorare per il raggiungimento dell’utile economico. Questo è lo snodo di fondo da cui deriva tutto il resto.
Direi che da qui la discesa è veloce e si arriva con facilità e senza contraccolpi od ostacoli al 2015 e alla riforma di Renzi – cioè del Pd – che riporta la Rai a prima del 1975 e cioè sotto il diretto controllo del governo, guidata da un amministratore unico che accentra su di sé tutti i poteri. Un uomo solo al comando, come soluzione di tutti i problemi che la democrazia comporta: al governo, come nella scuola, come nel servizio pubblico radiotelevisivo. Non è un fatto formale ma sostanziale l’idea che una azienda culturale pubblica sia gestita non più da un direttore generale che risponde a un consiglio di amministrazione ma da un amministratore unico – nominato di fatto dal governo – investito di pieni poteri: sul piano industriale, sul bilancio preventivo, sulle stesse ristrutturazioni industriali, sulle nomine, sulle stipulazioni dei contratti aziendali fino a dieci milioni.
E allora se si vuole davvero difendere la libertà d’espressione e il pluralismo culturale e informativo, è da dove è iniziata la “barbarie” che bisogna ripartire, rimettendo in discussione tutto l’attuale sistema legislativo e ricominciare a riflettere e lavorare all’elaborazione di una nuova legge per tutto il comparto delle comunicazioni. E ragionare insieme a tutte le forze culturali, professionali e sociali del settore per una riforma radicale del servizio pubblico radiotelevisivo che riguardi il modello editoriale ed organizzativo, la struttura aziendale e produttiva, l’assetto istituzionale. Partendo dalla consapevolezza del ruolo fondamentale che non solo l’informazione, ma tutta la programmazione radiotelevisiva hanno sulla formazione dei modelli culturali e dei sistemi di valori, sulla conoscenza e consapevolezza della realtà, sulla possibilità o meno di conservare e trasmettere la memoria storica per capire quello che siamo oggi e decidere cosa vogliamo essere domani. Per capire in che mondo viviamo e se vogliamo cambiarlo e come. Per la formazione di un pensiero unico appiattito sulla realtà oppure di una coscienza critica. Se il senso comune diffuso oggi nel paese è quello che tragicamente è, lo si deve in parte – non certo meccanicisticamente – anche ai modelli diffusi dagli apparati culturali, formativi ed informativi.
Lavorare ad una riforma che riporti il servizio pubblico sotto il controllo del Parlamento e che abbia alla base regole che rendano trasparenti, pubblici e partecipati i criteri di nomina del consiglio di amministrazione e dei dirigenti. Per esempio stabilendo che siano i lavoratori della Rai, quelli dell’informazione, le forze sociali, culturali e professionali di tutta la produzione culturale (dall’editoria al cinema, dall’audiovisivo al teatro e alla musica, e così via) a proporre per il consiglio di amministrazione delle rose di nomi sulle quali il Parlamento deve decidere. E che le rose dei nomi siano strettamente legate e condizionate a proposte e progetti sul ruolo strategico della azienda pubblica.
Una riforma che ridia pieni poteri e autonomia a un consiglio di amministrazione che sia espressione di tutti i settori della produzione culturale ed artistica.
Che riporti la Rai nelle condizioni di assumere il ruolo le compete, e cioè quello di “volano dell’industria culturale del paese”. Che vuol dire non solo garantire libertà espressiva e creativa, ma promuovere, sostenere, fare emergere, dare voce e volto alle tante potenzialità e alle tante soggettività e realtà culturali e produttive diffuse su tutto il nostro territorio nazionale. Questa è la base per un vero pluralismo culturale.
Una riforma che metta il servizio pubblico radiotelevisivo nelle condizioni di garantire non una informazione “oggettiva” che non esiste, ma un’informazione che rispecchi e rappresenti la vita reale insieme a tutti i “soggetti” presenti e protagonisti nella società: pluralismo dell’informazione vuol dire dare conto dei tanti diversi punti di vista che quei soggetti esprimono.
Una riforma che ridia alla Rai la legittimità democratica di “servizio pubblico” garantendole autonomia e trasparenza, trasformandola in una azienda decentrata e partecipata, pluralistica nella sua offerta informativa e culturale complessiva nel rispetto dei tanti “pubblici”, sganciata dalle logiche di ascolto e di mercato, strettamente finalizzata all’utile culturale e dunque sociale.
Se le “battaglie” si limitano alle guerre per i nomi e per gli “spazi”, si farà ancora una volta finta di voler cambiare tutto per non cambiare poi in realtà niente.
*Responsabile nazionale cultura PRC-S.E.