L’orologio della stazione centrale, a Bologna, è ancora fermo sulle dieci e venticinque, da trentanove anni. Su quello del Tribunale bolognese oggi è invece segnata una data, il 9 gennaio: il giorno in cui dopo sei ore e mezza di camera di consiglio è arrivata la sentenza del processo per la strage alla stazione, che ha visto l’ergastolo per l’ex Nar Gilberto Cavallini, condannato dalla corte d’assise come responsabile dell’attentato insieme a Francesca Mambro, Valerio Fioravanti e Luigi Ciavardini.
È il 2 agosto del 1980, quando una bomba esplode nella sala d’aspetto di seconda classe. Una delle giornate più affollate dell’anno a Bologna, forse una delle più calde di sempre. Quando avviene l’esplosione, il binario uno è stracolmo di turisti, di lavoratori, di chi sta aspettando di salire sul proprio treno, cercando di scrollarsi di dosso l’afa, dopo una coincidenza persa. I numeri, da subito, parlano da soli: 85 morti, oltre 200 feriti. L’attentato più grande in Europa, dalla fine della guerra.
Da allora sono in tanti a non rassegnarsi al tempo che passa e alle archiviazioni. A voler fare chiarezza, in una lotta per la verità e la giustizia che unisce i fascicoli dei magistrati e degli avvocati di parte civile, le carte di archivio degli storici, la volontà dei familiari delle vittime e il lavoro del giornalismo d’inchiesta. Una ricerca collettiva, che è stata al centro di FILI: il festival dell’informazione libera e dell’impegno organizzato da Libera Bologna, che quest’anno ha voluto unire le storie delle vittime delle mafie e del terrorismo.
“Abbiamo parlato di una strage ancora in cerca di verità”, spiega Sofia Nardacchione di Liberainformazione. “Per ricordarci che ci sono sentenze che non possiamo non tenere in considerazione, che non è possibile lasciare spazio a chi ancora vuole riportare nuove piste per depistare, per togliere valore ai cinque gradi di giudizio che ci dicono che è stata una strage neofascista. Ma che, ancora dopo 39 anni, non possiamo dare nulla per scontato.” Nulla per scontato. Perché, nel marasma di informazioni e controinformazioni sulle indagini, hanno di nuovo fatto capolino ritornelli già sentiti: piste palestinesi, perizie sulla provenienza degli esplosivi, analisi del Dna alla ricerca di una vittima numero ottantasei, la confusione che cresce ogni anno che passa.
“Si sente forte la necessità di avere una giustizia, anche se tardiva. Lo chiedono le vittime e i sopravvissuti, che hanno bisogno di avere una verità per andare avanti”, sottolinea Cinzia Venturoli, storica dell’Università di Bologna, che da sempre si occupa dell’attentato alla stazione e degli anni dello stragismo. “Ma è importante per ogni cittadino, che deve poter riconquistare fiducia nella giustizia e nello stato, dopo anni di continui depistaggi. È una questione di cittadinanza, per una comunità che deve trovare i colpevoli e, finalmente, i mandanti. Anche perché, nonostante le sentenze passate in giudicato, c’è ancora chi, soprattutto da una certa parte politica, cerca di alzare la povere, di confondere le idee e di mettere in discussione le decisioni dei tribunali.”
Lo pensa anche Paolo Lambertini dell’associazione dei familiari delle vittime. Nel 1980 aveva poco più di quattordici anni e sua mamma lavorava negli uffici della Cigar, al primo piano della stazione, sopra la sala d’aspetto. “C’è chi ci dice Ancora avete bisogno di verità?, State ancora rompendo le scatole per questa verità? Ancora sì. Ne vale ancora la pena, anche dopo quest’ultima sentenza. Continueremo a chiedere giustizia, sugli esecutori materiali e sui mandanti. Lo facciamo per noi, per le persone che abbiamo perso. Ma anche per questo Paese, che merita di avere verità su un periodo cruciale della sua storia.”
Una storia che è piena di punti interrogativi, di vicende mai risolte. Daniela Marcone di Libera, il cui padre è stato ucciso dalla criminalità organizzata foggiana, ha tirato un filo tra questi copioni sovrapposti e ha parlato di “memoria viva, che faccia percepire il danno subito da un’intera collettività, a partire dai sogni spezzati, dalle singole vite. Non numeri, ma vite, storie.” Storie individuali che permetterebbero però di decifrare meglio la storia di un intero paese. Storie che non sono poi così distanti da quelle delle vittime di piazza Fontana e di Portella della Ginestra, di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, di Giulio Regeni. Solo per fare alcuni nomi e solo per tracciare fili, appunto. “Proprio in questi giorni, nel Tribunale di Bologna, è arrivato alla fine il processo Cavallini Bis. Le udienze si sono tenute nella stessa aula dove si è celebrato il processo Black Monkey, il primo processo in cui il Tribunale di Bologna ha riconosciuto il reato di associazione mafiosa, poi caduto in appello”, spiega sempre Sofia Nardacchione. “Per quel processo siamo stati in aula tutte le udienze, e ci siamo stati anche nel giorno in cui hanno letto le conclusioni gli avvocati delle parti civili, tra cui i familiari delle vittime della strage. Con loro a chiedere verità e giustizia.” Per chiudere un fascicolo e aprirne, se andrà come deve, un altro. Quello più importante, sui mandanti.