“Riapriremo l’ambulatorio di Riace. Serve però l’aiuto di tutti per migliorarlo, acquisire nuove strumentazioni e tutto ciò ci possa supportare a svolgere la nostra missione: visitare le persone che non possono permettersi di pagare ticket e visite specialistiche”. Lo afferma il dottor Isidoro Napoli, presidente dell’associazione Jimuel e fondatore dell’ambulatorio di Riace grazie al sostegno della ex amministrazione di Domenico Lucano e al finanziamento dello studio radiologico Fiscer di Siderno. Per parlare di questa esperienza bisogna partire da lontano. Sì, perché c’è un filo che collega l’esperienza di Riace con le Filippine, il Kenya, il Congo e l’Indonesia. Si tratta proprio della associazione Jimuel, nata 13 anni fa, che ha avviato ambulatori teleassistiti, nelle aree del mondo più disagiate.
Dottor Napoli, come nasce il progetto dell’associazione Jimuel?
È nato nelle Filippine, casualmente. Da un viaggio a Manila: fui letteralmente trascinato lì da una suora dell’ordine delle ancelle parrocchiali dello spirito santo. Portammo una borsa di farmaci che finirono nel giro di una settimana. I bambini, immersi nella povertà più totale, rischiavano la vita per banali infezioni. Capimmo che le nuove possibilità offerte dal web potevano aiutarci. Tornati in Calabria è nato così il progetto “Internet Medics for Life” per portare il medico di famiglia nelle aree del mondo in cui la cura non è un diritto riconosciuto. Con skype e delle particolari telecamere e microfoni riuscivamo a visitare a distanza. In pediatria a Locri c’era proprio una postazione per visitare bambini a 11mila chilometri di distanza. Una volta riuscimmo a salvare la vita ad un bambino che aveva una neoplasia di un nervo nella scatola cranica. In una teleconferenza tra un neurochirurgo, un oculista e un pediatra di Locri riuscimmo scongiurare il peggio. Grazie a scambi formativi e stage dei medici filippini presso Ospedale Bambin Gesù e Università di Pisa, siamo riusciti a far vivere autonomamente gli ambulatori. Abbiamo seminato il germoglio della solidarietà. E adesso ne raccogliamo i frutti. Come in Kenya, in Indonesia e in Congo dove sono attivi altri ambulatori che stanno diventando sempre più autonomi.
Come si inserisce Riace in questo contesto?
C’è stato un momento in cui abbiamo deciso di guardarci intorno, nella nostra realtà. Nuove povertà, crisi economica, migrazioni. Sono sempre di più le persone che non possono permettersi di pagare il ticket per una prestazione sanitaria. Siamo partiti da Riace, dove i migranti venivano accolti e dove veniva assicurata loro la dignità. Abbiamo pensato ad un ambulatorio aperto a tutti: riacesi, nuovi riacesi e persone provenienti da paesi limitrofi. In Italia c’è chi per una tubercolosi rischia la vita, come un minore che abbiamo curato: era arrivato già in una fase critica e ha avuto una paralisi. Lo abbiamo visitato e abbiamo predisposto il ricovero presso una struttura di eccellenza a Milano. Ci sono voluti anni per registrare miglioramenti. Ma questo dà perfettamente il senso del nostro lavoro: provare a rispondere con celerità a emergenze. Insomma l’ambulatorio era diventato un punto di riferimento importante. “Era” perché adesso l’ambulatorio è stato smantellato.
Cosa è successo?
La nuova amministrazione leghista di Riace ha visto nell’ambulatorio un nemico. L’esperienza è stata proprio cancellata. I locali, che l’ex sindaco Lucano ci aveva dato in concessione, ci sono stati tolti. Ma non ci siamo arresi e con la collaborazione dell’associazione Città Futura e della fondazione “È stato il vento” abbiamo individuato dei nuovi locali da ristrutturare. È nata anche una raccolta fondi su GoFundMe per permettere la riapertura dell’ambulatorio. Qualsiasi tipo di aiuto è il benvenuto.
Quando riaprirà l’ambulatorio?
Se tutto fila liscio dovremmo inaugurare il nuovo ambulatorio il 7 febbraio. Con noi ci sarà anche Pietro Bartolo, medico di Lampedusa e attualmente eurodeputato.