Credete (vi hanno detto?) che “Hammamet” di Gianni Amelio rinunci ad essere anche un film politico? Errore. Come se nulla fosse, a metà del racconto filmico, il Presidente (“capo branco morente”) enuncia, con impeto spavaldo, una sua (atavica) convinzione, un “suo” postulato di teoria politica. Secondo cui lo stato “democratico e repubblicano” è il più costoso dei sistemi esistenti: sicchè “se lo volete” ve lo pagate, tramite- va da sé- i “vostri rappresentanti”. Come dire: pagateci! Sarà, anzi è, criminogeno, tracotante, ma chi – stando alle opportunità della sorte e del più spregiudicato pragmatismo- può “proclamarsi”refrattario a simili tentazioni (tranne i santi)?
Non tutto è lineare e schierato, anzi… “Hammamet” (diretto da un autore che sin da “Colpire al cuore” spiega la cosa pubblica solo in ragione delle private nevrosi) è un film soffuso, contraddittorio, irto di qualità e (calcolate) deficienze, omissioni, reticenze. Da cui desumere quel dibattito massmediatico che – in ultima analisi- era lo scopo del regista e del produttore Saccà (ex Mediaset, “socialista della “modernità”)
Un dramma borghese, questo si. Cui non occorrono catarsi, espiazione, spargimento di sangue, insiti nella tragedia. Quindi: più Ibsen che Sofocle, più Strindberg che Shakespeare in un ‘redde rationem’ di leadership, clientele, dissidenze e familismo (con un magistrale Cederna nel ruolo della cattiva coscienza non allineata e preveggente). Inscenato dal regista (e dal suo co-sceneggiatore Taraglio) a vent’anni dalla morte di Craxi, con quel tanto di “astrazione” deferente ma calcolata che si auto imprimono evitando che alcun nome o dato anagrafico (da docufilm giudiziario) siano pronunciati in tutto il corso del film. Per corroborarne le ambizioni di (legittimo) apologo morale (sulla a-moralità del potere), di ascesa (passata) e caduta (in epilogo) dell’ “autocrate decisionista”.
Film –per certi versi- anche intimista, ma non chiuso in se stesso, ancor meno minimalista -salvo brevi tracce di ‘ripiegamento e oggettivo affanno’ nei rapporti di scorbutica complicità con la figlia (Livia Rossi) che assiste il Padre. Forte semmai di una delicata introspezione (dei comportamenti che annunciano il cedimento “strutturale” dell’uomo), mai però di timbro sensazionalista. Specie quando entra in scena il personaggio di Fausto (Luca Filippi), figlio del compagno dissidente che, suicidandosi, lascia una secretata lettera “da recapitare ad Hammamet” – ed il cui contenuto resterà ignoto allo spettatore. Ma che il ragazzo, intenzionato a vendicarsi (vaga con zainetto e pistola dentro), approfittando della ravvicinata distanza dal Presidente -che lo accoglie prima con diffidenza, poi con trasporto- trasformerà in teleripresa con piccola telecamera, come a virgolettare (tramite utilizzo dello schermo in visione in da vecchio super8) “sfoghi e confessioni” dell’uomo iracondo e sconfitto, destinati a volare al vento come nei famosi versi di Bob Dylan. Quindi ‘addebitando’ ad Amelio una ulteriore sfumatura di poetica vacuità.
Per il resto, la morte è al lavoro in una ’”Hammamet” corporale e dolorosa sino alla pietas e alle soglie dell’inferno in terra- o per lo meno di una via crucis corporale forse sproporzionata all’oggetto del contendere (tesoretti in Svizzera compresi) ed al suo contrappasso senza riscatto. Dal momento- sembra suggerire Amelio – che ”anche le tangenti e chi ne godette, alla fin fine hanno un’anima”. E, magnanimamente (quindi tralasciando il giudizio etico- giudiziario), chi può, in serena coscienza, scagliare pietre e verdetti? Così come Craxi provocava in Parlamento: “chi di voi può alzarsi e giurarsi immune da questo sistema?”
Parabola umana del fu-Invicibile, che ambisce ad essere allegoria di potere e dolore, nei frangenti della caducità fisica e della fisiologica capitolazione. Nel suo mentale habitat di arroganza non visionaria o delirante, bensì raggrumata nella testarda convinzione di “essere perseguitato” perché una spanna sopra degli altri (Tangentopoli? Una collaudata partita di giro) e inviso ai governanti Usa per il gran rifiuto di Sigonella e delle truppe yankee che circondarono l’aereo con terrorista a bordo.
Dal punto di vista figurativo (elemento basilare del film), Amelio rapporta l’imponente icona del Personaggio agli spazi che a lui si consustanziano: da quelli esaltanti del Congresso a quelli spogli della Tunisia nei quali è impossibile nascondersi -si pensi a “Il primo uomo”- e nel rapporto fra “l’infinitesimo” dell’Uomo e l’immensità dell’ambiente che lo circonda, come nello sterminato oriente de “La stella che non c’è”.
Ultime osservazioni: del tutto pletorico lo scivolone (pseudo-felliniano) verso il sogno del Presidente, che rivede il padre fra le guglie del Duomo di Milano, per poi subire derisioni e cachinni all’interno di un teatrino per guitti en travesti. Quanto a Pierfrancesco Favino, avvaliamoci della sospensione di giudizio, mentre è in moto la riflessione dirimente fra “interpretare” e “farsi clone” (ad alto virtuosismo di trucco e mimesi): vexata quaestio sin dai tempi in cui erano in tanti a considerare “perfetto” l’Aldo Moro (anche lì in incognito) di Volontè, in “Todo modo” di Pretri, mentre noi ammiravamo la soggettiva reinvenzione di Herlitzka in “Buongiorno notte” di Bellocchio.