Matteo Salvini arriva al Pilastro di Bologna e si attacca a un citofono: «Ci hanno segnalato una cosa sgradevole, volevo che lei la smentisse. Ci hanno detto che da lei parte una parte dello spaccio della droga qua in quartiere…».
Quartiere Pilastro, a Bologna; in fondo a via San Donato, sulla strada che va verso Granarolo. Casermoni popolari chiusi tra lo scalo merci ferroviario di Bologna e il parco alimentare FICO, con annessa Facoltà di Agraria e uno dei centro commerciali più grandi della zona. Una biblioteca, una palestra; tanto verde. Tre piante e un paio di monumenti in un giardino, proprio davanti alla parrocchia: ricordano la Strage del Pilastro, quando il 4 gennaio 1991 la banda della Uno Bianca uccise tre carabinieri: Otello Stefanini, Andrea Moneta e Mauro Mitilini.
Subito dopo la visita di Salvini, il campanello della famiglia al primo piano (come li ha chiamati l’ex Ministro dell’Interno) è suonato ancora; era Beppe Facchini, di FanPage. Risponde un ragazzo di 17 anni, che scende sotto al portico per parlare col giornalista: «Come può questa venire sotto casa mia a dire io vengo a spacciare… domani la denuncio». Ma perché la signora ha fatto una cosa del genere? È totalmente infondata la sua “segnalazione”? «Non spaccio, adesso. Ho fatto di tutto e di più…ho fatto tanti anni di galera e c’ho dei definitivi che mi devono arrivare…». Ma adesso studia, lavora, gioca a calcio e pratica pugilato, il ragazzo del primo piano.
C’è la scuola al Pilastro, ci sono i campi sportivi; ma ci sono le inferiate a tutte le finestre. Ci sono i tentativi di integrazione con i tanti stranieri che vivono in quartiere, ma ci sono gli anziani che vivono nel timore e nella soggezione. L’amministrazione promette che apriranno una caserma dei carabinieri proprio nel mezzo del quartiere, intitolandola ai tre militari caduti a poche decine di metri: «La realizzazione della caserma ha l’obiettivo di riequilibrare situazioni in parte compromesse e talvolta ritenute periferiche», si legge in merito sul sito del Comune di Bologna.
Facile dire che la verità sta nel mezzo; ma non è esattamente così. Esistono verità che stanno in Centro, tra palazzi rinascimentali e piazze medievali, e verità che stanno al Pilastro, alla Barca, alla Bolognina, in quella via Ferrarese che è diventata una china-town, in piazza dell’Unità che si è trasformata in una piccola casbah in salsa felsinea. I ragazzi del Pilastro vengono in centro alla sera, ma difficilmente gli abitanti del centro portano a spasso i loro figli nei giardinetti del Pilastro; la borghesia bolognese va a fare footing ai Giardini Margherita, ma non corrono dirigenti e amministratori dove si allenano i ragazzi che tirano cazzotti a un punching ball, tra i palazzoni del Pilastro. Laggiù, in fondo a San Donato, ci sono pensionati e stranieri. Gli uni che temono gli altri.
Facile parlare di integrazione, ma se per andare al Pilastro si deve mettere il navigatore è un parlare ipocrita: da parte di chiunque. Le periferie vanno conosciute, per giudicarle e per cercare di risolverne i problemi.
Non serve arrivare una tantum a suonare il citofono, come non serve fare finta di pensare che quel campanello non esista. Perché la signora che porta il cane a spasso nel giardino sotto le finestre che ha indicato a Salvini, domani sarà ancora lì. E il ragazzo del primo piano che è sceso a parlare con Beppe Facchini, domani sarà lì anche lui. Ma non parleranno; si saranno “denunciati” reciprocamente. Non ci saranno più Salvini, poliziotti di scorta, giornalisti, amministratori e politici di ogni schieramento. E sarà questo il problema; perché non ci sarà più lo Stato.
Non era questa l’Emilia Romagna che sognavano: né la signora col cane, né il 17enne che «…ne ha fatte d’ogni...».
E forse è un po’ colpa anche di noi giornalisti.