In questi giorni sono apparsi, sulle pagine di diversi quotidiani, i dati forniti dall’ Inail sugli infortuni sul lavoro per il 2019. E il 10 Gennaio il Sen. Nannicini, in una intervista al quotidiano La Repubblica, denuncia l’immobilità delle Istituzioni, compresa la Commissione d’Inchiesta sulla Sicurezza sul lavoro e lo sfruttamento.
Non è la prima volta che subito dopo la pubblicazione dei dati da parte dell’Inail si alza un polverone mediatico che ignora una seria analisi dei dati e corre a darne risalto per poi procedere a riesumare proposte che sono in campo da decenni e che dopo qualche mese non hanno nessun seguito.
Non è questa la strada. I dati sono già pesanti e non serve dilatarli, creando una atmosfera di sensazionalismo, magari ricorrendo a dati alternativi spesso raccolti senza un criterio scientifico da parte di persone volenterose, ma che hanno poca familiarità con questa tematica. Per lavorare quotidianamente per la prevenzione nei luoghi di lavoro non servono cifre allarmistiche, quanto cifre corrette che aiutino a capire come accade, quando accade, perché accade l’infortunio.
Agli allarmisti si contrappongono i minimizzatori. Coloro che guardano agli infortuni come “tragiche fatalità” o “morti bianche”. Espressioni di cui ci si dovrebbe vergognare e che sembrano avere l’intento di deresponsabilizzare tutti. Ma le cause ci sono e anche le responsabilità. Su questo punto le massime autorità mondiali sono state chiare. Il Comitato misto OIL-OMS per lo studio epidemiologico dell’infortunio sul lavoro già nel 1989 dichiarò: “gli infortuni sono una conseguenza statisticamente prevedibile del fallimento tecnico sociale del lavoro”. In sostanza gli infortuni sono la conseguenza di errori gestionali sia tecnici che relazionali. Il destino non c’entra per nulla.
La direzione da imboccare è, a nostro avviso, un’altra. Allora vale la pena dedicare pochi minuti per fare chiarezza sui dati e sulle proposte.
Le cifre fornite dall’Inail riguardano i primi 10 mesi dell’anno e parlano di 896 morti e 534mila denunce. E’ molto probabile che per fine anno siano di più. La stessa Inail, poi, ammette che i suoi dati non considerano due tipologie di lavoratori: quelli che non sono assicurati con l’Inail stessa e quelli che svolgono attività nell’economia sommersa. In entrambi i casi si tratta di un numero tutt’altro che trascurabile. Nel primo caso, parliamo di molti lavoratori del Pubblico Impiego, alcuni esposti a rischi elevati, come le Forze dell’Ordine o i Vigili del Fuoco. E nel secondo caso di, secondo l’Istat, 3 milioni 700 mila lavoratori. Come non bastasse c’è un’altra categoria che non rientra in quei dati. Si tratta dei lavoratori che subiscono infortuni in strada. L’Inail contabilizza gli infortuni su strada e quelli in itinere, cioè accaduti nel percorso casa-lavoro e viceversa, ma è noto che solo una parte di questi infortuni sono denunciati come infortuni lavorativi. Infatti non sempre la polizia è in grado di stabilire se l’incidente stradale ha coinvolto persone che circolavano per lavoro oppure per ragioni private. Uno studio ACI-Inail li ha quantificato questi possibili eventi in diverse centinaia di casi.
Sono dati importanti se si pensa che già oggi un infortunio mortale su due avviene fuori dall’azienda, in strada.
Quindi i dati sono parziali, vanno integrati, e su questo si deve lavorare ancora molto collegando le banche dati e le istituzioni che sono in grado di raccoglierli. Piuttosto, se si vuole offrire un aiuto, è meglio raccontare le storie delle persone infortunate, rammentare sempre che dietro ai freddi numero statistici ci sono lavoratori che hanno una famiglia, degli amici, degli affetti, una vita sociale. Ricordare che le vittime sono persone che, come tanti, escono ogni mattina per svolgere quell’attività che offre loro la possibilità di vivere con dignità e all’Italia di mantenere il suo ruolo di Paese tra i primi al mondo. Non per restare menomati o morire.
Va detto che in tutta Europa compresa l’Italia, la tendenza è da decenni alla diminuzione del numero degli infortuni anche considerando il tasso standardizzato di incidenza infortunistica, cioè rapportando la quantità degli infortuni al numero degli occupati. Magari si può invertire un anno su l’altro, ma nel lungo periodo è quella. Nel nostro Paese solo dal 2008 al 2017 le denunce sono diminuite del 35%.
Dunque l’Italia non è un Paese che si distingue in Europa per il numero straordinario di infortuni o di morti sul lavoro non si discosta molto dalla media della UE. Ne ha poco più della Germania e poco meno della Francia. Questo ci dice che il tema non riguarda solo il nostro Paese, ma anche altre Nazioni e che forse ci sono cause comuni. Sia chiaro che non stiamo ridimensionando la drammaticità del problema, ogni decesso è una sconfitta. L’obiettivo, per tutti, deve essere zero infortuni gravi o mortali. La tendenza alla diminuzione piuttosto deve andare molto più veloce. E per questo serve chiarezza e lavoro quotidiano.
L’Italia ha un elemento di diversità. Si distingue per il peso che hanno piccole o micro imprese nel tessuto produttivo. E’ qui, secondo l’indagine europea ESENER-2 che avvengono l’82% degli infortuni e il 90% degli infortuni mortali. E spesso, elemento di maggiore preoccupazione, con dinamiche uguali da cinquant’anni a questa parte. Sono aziende con 4 o 5 dipendenti in media, staccate dal mondo delle associazioni imprenditoriali e senza una presenza sindacale. A volte faticano a mantenersi a galla, hanno scarsi capitali per innovare, allargare il proprio mercato di sbocco. Guardano alle misure per la sicurezza principalmente come un costo gravoso. In genere sono inserite in una filiera, in una catena di appalti o subappalti, al massimo ribasso, in cui finiscono per fare il lavoro sporco che le grandi e medie imprese scaricano volentieri. Parliamo di tre milioni e mezzo di imprese. Imprese utili, che partecipano in modo determinante allo sviluppo e che non vanno criminalizzate, ma aiutate. Imprese che per il loro numero e la loro diffusione territoriale, sono impossibili da controllare periodicamente. E’ necessario percorrere un’altra strada e cioè quella della assunzione diffusamente di una solida “cultura della sicurezza”. Come? Creando una coerente, convergente e costante azione di sostegno e di consulenza che coinvolga tutte quelle persone e istituzioni pubbliche che dicevamo all’inizio sono dentro il sistema della prevenzione. Creare intorno a quelle imprese una rete di sostegno di prossimità. Dalle Strategie Nazionali a quelle territoriali ci si dedichi a costruire questa rete. A proposito l’Italia ha un’altra diversità: è l’unico Paese europeo che non ha mai avuto una Strategia Nazionale. E’ ora di vararla.
L’indignazione oggi a ondate, dei media e della pubblica opinione, deve mantenere la sua pressione sugli attori economici e Istituzionale e trasformarsi in cambiamento. La cultura della sicurezza deve entrare a far parte del bagaglio di chiunque faccia impresa e di tutta la cittadinanza. Per questo ci auspichiamo una maggiore determinazione anche delle Parti Sociali e in particolare del sindacato CGIL-CISL-UIL.
La Costituzione prevede la tutela della salute come “fondamentale diritto del cittadino” dunque dovunque la persona si trovi: a lavoro, a casa, per strada. Il cittadino ha una sola salute e il Paese tutto deve essere orientato e impegnato alla sua tutela. Con meno ricerca di sensazionalismo e maggiore determinazione e costanza.
Marco Bazzoni – Rappresentante dei lavoratori per la Sicurezza
Daniele Ranieri – Responsabile Servizio Prevenzione e Protezione