La voce registrata di Giorgio Strehler ammutolisce ancora nel buio l’ovazione che si alza dal pubblico dello Stabile di Catania per “L’anima buona di Sezuan” di Bertolt Brecht, che Monica Guerritore, nella doppia veste di regista e interprete, ha dedicato proprio al maestro milanese e alla sua celebre messa in scena del 1981.
In questa parabola in cui gli dei scendono sulla terra per trovare almeno un’anima buona, l’unica a mostrarsi degna è Shen Te una prostituta, generosa e altruista. Premiata dagli dei con una cospicua somma che le permette di avviare un’attività, la donna deve però fare i conti con una pletora di parenti, di profittatori, di parassiti che si presentano alla sua soglia. Così è costretta a trasformarsi continuamente nello spietato e avido cugino Shui Ta per tentare di sopravvivere, ad indossare insomma “la pelle di lupo”, vestendo i panni ora del corruttore ora del capitalista senza scrupoli, procacciandosi, in quella veste, pure un matrimonio: un vero e proprio fuoco d’artificio di trasformazioni: la maschera del cugino è a metà tra la caricatura di un rampante yuppie e un boss, un doppelgaenger nei cui panni la Guerritore conferma anche nella deformazione corporale e psicologica le sue doti interpretative. Questo malvagio gemello è una figura della drammaturgia brechtiana: come non pensare al Peter Pont Moeller della “Santa Giovanna dei Macelli” generoso e buono ma al contempo criminale e vorace a secondo della quotazione in borsa delle sue azioni? Shen Te si fa carico dei debiti altrui, lotta per una società più giusta ed equa, ma il suo messaggio è reso vano da tutti: chiunque pretende di conoscerla, di guidarne i passi, di consigliarla per il meglio; i più, in realtà, vogliono circuirla, pochi – una dolcissima coppia di anziani – ne riconoscono la generosità. Lo spettacolo è il paradigma feroce del mondo: per migliorare propria condizione chiunque si piega all’imbroglio, alleandosi anche con il proprio nemico per frodare gli altri, tutti ostinatamente chiusi nella dimensione economica dell’homo homini lupus. Brecht smaschera l’etica della furbizia: la legge elementare della giungla – ovvero della società dei consumi – che si declina in termini di profitto, di divisione degli utili, di produzione; un mondo sorretto dal timore della divinità – “i sermoni servono assai poco contro la miseria” – e dove “la povertà è una parola sporca”.
La stessa Shen Te perviene al suo limite esistenziale e il suo doppio si disgrega: “Come un fulmine, il vostro antico comandamento di esser buona e di viver bene mi ha squarciata in due parti.” Un mondo nel quale anche la Giustizia diventa – nella forma del Processo a Shui Ta – l’apoteosi del potere, della camarilla e del doppiogiochismo, in un finale in cui si dispiega tutto il “teatro epico” dell’autore tedesco. Sul palcoscenico è la scena mobile a dettare i tempi, lo spazio e i movimenti stessi degli attori, immersi nella luminescenza nitida e rarefatta che nulla toglie al realismo espressionista del teatro brechtiano: anzi l’amplifica e la definisce. I segni superstiti di questa continua rarefazione che la Guerritore regista opera mutuandoli dal magistero strehleriano, diventano logos essi stessi dando vita ad uno spettacolo che arriva anche dal corpo degli interpreti: la voce, il gesto la loro posizione nello spazio: e a Catania, prima della seconda parte, gli stessi dei scendono addirittura in platea per ammonire contro i cellulari che squillano – al solito – durante lo spettacolo… “L’anima buona di Sezuan” è dunque un’opera proteiforme: Monica Guerritore conserva il gusto brechtiano per l’Oriente delle cineserie, il piglio iconoclasta e antireligioso ma nello spesso tempo quello per il cabaret e il burlesque – le musiche originali sono di Paul Dessau il “compositore” di Brecht – compreso un trasversale omaggio al Beckett di “Finale di partita”. Ogni sequenza dunque “una occasione allegorica di una materia costantemente rivoluzionaria”. In fondo – come ammonisce la stessa vox di Strehler – Shen Te continua imperterrita a cercare di fare del bene. Nonostante. Il dramma e la questione sono tutte lì: nella misteriosa e indomabile debolezza dell’amore.