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L’addio al «filosofo eretico» 

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È giunta solo ieri la notizia dell’addio al filosofo (“condannato” nel passato dalla Chiesa cattolica) Emanuele Severino nato nel 1929 (il 26 febbraio) a Brescia. È scomparso nella sua casa all’età di novant’anni lo scorso 17 gennaio, ma l’annuncio è stato diffuso dai familiari a funerali avvenuti.

Al filosofo «eretico» (certamente uno dei più importanti filosofi italiani del secondo Novecento), come qualcuno amava definirlo, giunse negli anni delle contestazioni studentesche una «condanna» dal Sant’Uffizio (proprio come accadde a Galileo Galilei qualche tempo prima…).

«Cercavo di evitare che il mio discorso filosofico potesse essere confuso con le manifestazioni studentesche – ricordava Severino incalzato dal Corriere della Sera -, anche perché Mario Capanna, il loro leader, aveva chiesto di laurearsi con me. Le mie idee maturavano già da tempo, sin da quando, in lavori precedenti, avevo sostenuto la possibilità che il cristianesimo fosse un errore. Tutto precipitò nel ’64, quando scrissi Ritornare a Parmenide, libro dal quale appariva evidente non solo che il Cristianesimo potesse essere follia, ma che lo era certamente».

Un pensatore influente Severino, «che negava la visione salvifica della Chiesa nei suoi scritti – ricorda oggi celebrandone la scomparsa, il quotidiano Il tempo nella sua pagina online -. Allora inaccettabile per l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, dove ebbe la cattedra di filosofia teoretica dal 1954 al 1969. E così nel 1970, in modo plateale, dopo un processo dell’ex Sant’Uffizio che proclamò ufficialmente l’insanabile opposizione tra il pensiero di Severino e il cristianesimo, Severino fu cacciato dall’Ateneo fondato da padre Agostino Gemelli. Da allora, radicalizzando le sue posizioni nichiliste, ha sempre sostenuto l’impossibilità di dirsi cristiano. Dopo la maturità classica Severino si iscrive al corso di laurea in filosofia all’Università di Pavia presso il Collegio Borromeo. Si laurea nel 1948 con Gustavo Bontadini, discutendo una tesi sul filosofo tedesco Martin Heidegger e la metafisica».

Il quotidiano online Vita.it ha deciso di pubblicare un  recente contributo del professore. Il testo pubblicato tra il luglio-agosto 2019 era stato raccolto per bookazine da Marco Dotti dove Severino afferma: «Il problema, oggi, è che s’invecchia male. Ho 90 anni e di libri ne ho pubblicati molti, e al mio pensiero è stato dedicato un ultimo, recentissimo convegno dal titolo “Heidegger nel pensiero di Emanuele Severino”. Non smetto di studiare, di pensare, di lavorare. Bisogna adattarsi alla vecchiaia, senza cadere nel futile e nella logica del “passatempo”. Si teme la morte perché la si confonde con l’agonia, con la sofferenza che sono fenomeni della vita. Ma dopo l’agonia che cosa c’è? Ecco dunque il problema della morte. La nostra cultura concepisce la morte come annientamento. Ma è davvero così? O la morte, piuttosto, è un proseguire infinito oltre il dolore che caratterizza la nostra vita? Quando mi chiedono se ho paura della morte o perché la guardo con serenità rispondo che l’Occidente crede che morire sia andare verso il nulla. Dobbiamo capire che questo che crediamo un andare nel nulla è, in verità, lo scomparire degli Eterni. […] Avvicinarsi alla morte è avvicinarsi alla gioia».

Anche MicroMega, rivista bimestrale fondata da Paolo Flores d’Arcais, oggi di proprietà del Gruppo editoriale Gedi, per omaggiare il filosofo ha deciso di riproporre un dossier pubblicato nel 2013, quando si riaccese la controversia intorno al significato della filosofia di Severino mettendo a disposizione il file in pdf.

Tra le opere rappresentative di Emanuele Severino c’è certamente, Essenza del Nichilismo (Paideia- casa editrice oggi acquisita dalla Claudiana Editrice –  Brescia 1972; seconda edizione ampliata, Adelphi, Milano 1982) e dove il filosofo afferma: «La storia della filosofia occidentale è la vicenda dell’alterazione e quindi della dimenticanza del senso dell’essere, inizialmente intravisto dal più antico pensiero dei Greci. E in questa vicenda la storia della metafisica è il luogo ove l’alterazione e la dimenticanza si fanno più difficili a scoprirsi: proprio perché la metafisica si propone esplicitamente di svelare l’autentico senso dell’essere, e quindi richiama ed esaurisce l’attenzione sulle plausibilità con cui il senso alterato si impone. La storia della filosofia non è per questo un seguito di insuccessi, si deve dire piuttosto che gli sviluppi e le conquiste più preziose del filosofare si muovono all’interno di una comprensione inautentica dell’essere».

Sprigionato dal sottosuolo russo, il nichilismo è un fantasma intorno a cui ruota tutto il pensiero moderno, a partire da Nietzsche, che per primo lo riconobbe essenziale: «Con Heidegger, nichilismo e metafisica occidentale si intrecciano e sovrappongono – sostiene Severino nel volume -. E oggi, dopo alterne vicende, la parola “nichilismo” ha ripreso a dilagare in ogni ambito, assumendo i più vari significati». Ma, osserva ancora Severino, «più si parla di nichilismo, più diventa indispensabile pensare l’essenza del nichilismo».

Nichilismo che per il filosofo è appunto «la persuasione che l’ente sia niente». In quanto tale il «nichilismo è l’essenza dell’Occidente».

Per provare queste asserzioni, afferma «non occorre nulla di meno che risalire alle origini del pensiero greco, ripercorrendo a ritroso il “sentiero della Notte” sino a quella “porta” dove esso si divide dal “sentiero del Giorno”, secondo la parola di Parmenide».

È quanto avviene nelle pagine del libro, in una sequenza di analisi sapientemente concatenate, che guidano ai confini di quell’Occidente che «è la Repubblica fondata da Platone per aprirsi su ciò che, al di fuori di quella Repubblica, perennemente è».

Una bella intervista video è disponibile sul sito di TV2000, dove è possibile ascoltare il filosofo  in una delle sue ultime interviste e rilasciata alla giornalista Monica Mondo.

Riportiamo oggi un saggio del filosofo, riproposto oggi dal sito Didaweb.it, blog fondato da Antonio Limonciello per una scuola solidale, collaborativa, libera e gratuita

L’anima e il profitto 

di Emanuele Severino

Il punto di incrocio più duraturo, il nesso più saldo tra «civiltà borghese» e «civiltà cristiana» rimane quello indicato dal saggio di Max Weber: L’etica protestante e lo spirito del capitalismo. 

In questo scritto, la «civiltà cristiana» che è insieme «civiltà borghese» è però la società protestante, e propriamente calvinista, che vede nel successo dell’attività di tipo capitalistico – un successo implicante l’«ascesi», cioè il rifiuto dello spreco e del godimento della ricchezza compiaciuti di sé – il segno della propria predestinazione alla salvezza eterna. 

La lunga condanna dell’usura, da parte della Chiesa cattolica a cui si contrappone l’indispensabilità, per la messa in moto dell’intrapresa capitalistica, del prestito remunerato, costituisce già un motivo sostanziale che consente di affermare la distanza tra società borghese capitalistica e società cattolica. 

Nelle ultime pagine del suo saggio Weber ricorda, da un lato, che Eduard Bernstein è stato il primo a stabilire le connessioni tra etica ascetica protestante e razionalità dell’accumulazione capitalistica (sua è l’affermazione che l’«ascesi è una virtù borghese»); dall’altro lato rileva che: «Nel secolo Diciassettesimo nessuno ha mai dubitato di queste connessioni». 

Ma il tratto decisivo del discorso di Weber riguarda il rovesciamento essenziale che si produce quando nella società europea si passa dall’atteggiamento che vede la benedizione di Dio «nella ricchezza come frutto del lavoro professionale»capitalistico, e che dunque ha come scopo la salvezza eterna (o la certezza di essere salvi), all’atteggiamento che invece ha come scopo la ricchezza e che finisce col non aver più bisogno del «sostegno» fornitogli dall’etica protestante. 

Anche se in Weber manca l’enunciazione esplicita, il principio dominante del suo discorso è, infatti, il principio (aristotelico) che lo scopo di un agire determina la natura, il senso, l’essenza di tale agire. È lo stesso principio che domina in un potente passo di John Wesley (fondatore del Metodismo), riportato dallo stesso Weber, nel quale si dice che la religione deve produrre necessariamente laboriosità e parsimonia, quindi ricchezza, quindi orgoglio, desiderio di godimento, amore del mondo, sì che la ricchezza, da conseguenza della religiosità, diventa scopo e la religiosità o si dissolve senz’altro, o si dissolve diventando un mezzo per divenire ricchi. 

Il capitalismo nasce quando la volontà di incrementare il profitto abbandona il sostegno religioso che ha contribuito in misura rilevante a farla nascere. E questo è ancora discorso esplicito di Weber. Il capitalismo ha, infatti, come scopo l’incremento del profitto, non la salvezza dell’anima.

Oggi la Chiesa cattolica riconosce che la civiltà borghese capitalistica produce ricchezza in quantità incomparabilmente maggiore dell’economia pianificata del socialismo reale; ma per la Chiesa cattolica, come per le Chiese protestanti, lo scopo della ricchezza prodotta dall’agire capitalistico è il bene comune, il bene della società intera; cioè lo scopo non può essere l’incremento del profitto privato. 

Ma un agire è capitalistico, proprio perché ha come scopo questo incremento. E la volontà di profitto che ha come scopo ultimo la salvezza dell’anima non è, o solo apparentemente è, la volontà di profitto che ha come scopo l’incremento del profitto; ossia non è capitalismo – se con questo termine, si indica appunto l’agire economico razionale che ha come scopo tale incremento (una differenza, questa, che è invece assente nel discorso di Weber).

Anche la compatibilità che oggi sembra sussistere tra Chiesa cattolica e capitalismo – e anzi tra cristianesimo e capitalismo – è dunque soltanto apparente. Nonostante la connessione tra «etica protestante» e «spirito del capitalismo», la civiltà borghese capitalistica è essenzialmente in contrasto con la civiltà cristiana. Non è dunque necessario attendere la «globalizzazione» del mercato per sospettare che la compatibilità tra cristianesimo e logica del mercato possa andare in crisi: è in crisi sin dall’inizio. 

La globalizzazione del capitalismo è globalizzazione di ciò che, sin dall’inizio, è in contrasto col cristianesimo.

Ma la globalizzazione non è semplicemente la dominazione planetaria del capitalismo. Il capitalismo può dominare il Pianeta perché la tecnica di cui esso si serve sviluppa una potenza mai raggiunta dall’uomo. 

Si tratta di comprendere che il capitalismo è destinato a rapportarsi alla tecnica in modo analogo a quello con cui l’«etica protestante» si è rapportata alla volontà di profitto (ossia a ciò che Weber chiama «spirito del capitalismo»). 

Non solo: proprio per questa analogia – proprio perché si deve pensare «l’etica capitalistica e lo spirito della tecnica» -, si tratta di comprendere che come la volontà di profitto si è liberata dal sostegno costituito dall’etica protestante, così la tecnica è destinata a liberarsi dal sostegno in cui consiste il capitalismo stesso. 

(Ho sviluppato e giustificato questa tesi, ad esempio, in La tendenza fondamentale del nostro tempo, Adelphi, 1988; La filosofia futura, Rizzoli,1989; La bilancia, Rizzoli, 1992; Il declino del capitalismo, Rizzoli,1993; Pensieri sul cristianesimo, Rizzoli, 1995; Il destino della tecnica, Rizzoli, 1998).

Alla fine del suo saggio, Weber rileva che la volontà di profitto non è rimasta, come pensava il teologo protestante Richard Baxter, un «sottile mantello, che si possa gettar via in ogni momento»: il mantello si è trasformato in una «gabbia d’acciaio»e lo «spirito dell’ascesi» – chissà se per sempre – è fuggito da questa gabbia. In ogni caso il capitalismo vittorioso, da quando si fonda su una base meccanica, non ha più bisogno di questo sostegno ossia dell’ascesi.

Nessuno sa ancora chi in futuro «abiterà in quella gabbia». 

Weber non scorge cioè, in compagnia di tanti altri, che la gabbia d’acciaio del capitalismo sta diventando essa stessa – insieme al cristianesimo, alla democrazia e a tutte le grandi forze della tradizione occidentale – un’abitatrice di quella ben più grande e potente gabbia d’acciaio che è la tecnica del nostro tempo. 

La volontà di profitto che ancora s’illude di servirsi della tecnica è destinata a diventare un mezzo al servizio della volontà, in cui l’essenza della tecnica consiste nell’incrementare all’infinito la propria potenza. 

Da sempre in lotta tra di loro, civiltà borghese e civiltà cristiana, sono dunque sottoposte al comune destino di abitare entrambe la gabbia della tecnica, ossia di subordinare i loro scopi allo scopo della tecnica. 

Ma questo destino comune può anche stabilire una forma di solidarietà apparente, tra civiltà borghese e civiltà cristiana, analoga a quella che si era stabilita tra esse, nel secolo Ventesimo, di fronte al nemico comune costituito dal socialismo reale. Apparente, ma anche tanto più intensa quanto incomparabilmente maggiore è la potenza della tecnica rispetto a quella del socialismo reale e di ogni altra forza dell’Occidente.

La «gabbia» della tecnica è infatti qualcosa di abissalmente diverso dalla semplice «base meccanica» di cui parla Weber. Possiede un’ampiezza e un respiro in grado di soddisfare tutte le esigenze dello «spirito» che essa contiene, sia esso lo spirito religioso, o economico, o filosofico, o artistico, o politico. Pertanto è «d’acciaio» non perché soffochi lo «spirito», ma perché la sua dominazione è un destino inevitabile.

La globalizzazione, nella sua essenza, è globalizzazione della subordinazione del capitalismo e di tutte quelle altre forze alla tecnica. In modo ancora più radicale del capitalismo, la tecnica non ha come scopo la salvezza ultraterrena dell’anima, ma l’aumento indefinito della propria terrena potenza.

Fonte: Riforma.it 


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