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La Memoria e la coscienza: quando la scuola forma coscienze

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Facevo la quinta elementare, avevo poco meno di dieci anni, quando la maestra Lucarelli ci chiese di comprare, come libro di narrativa da leggere a scuola durante l’anno, “Se questo è un uomo”, di Primo Levi.
Ero una bimba gracile con grandi occhiali sul naso, un perfetto topolino di biblioteca, che amava molto leggere. A quel tempo mi piacevano i libri di avventura, Salgari era il mio mito. L’opera di Primo Levi mi ha aperto gli occhi su un mondo diverso. È stato uno dei primi libri a segnarmi come persona e a muovere dentro di me tanti sentimenti contrastanti. Da un lato non mi capacitavo della cattiveria umana, dall’altro mi chiedevo dove l’autore avesse trovato la forza di reagire e raccontare.
Forse all’epoca la scuola era diversa, si diventava maturi e consapevoli prima, forse la maestra Lucarelli è stata pioniera in questo senso, ma affrontare il tema della Shoah quando si è alle elementari (oggi chiamate scuola primaria di secondo grado), e si sta formando la coscienza civile di una persona, è un modo efficace di formare cittadini consapevoli, con coscienze vigili.
Sono cresciuta con un profondo senso di empatia verso le vittime e di ripudio e condanna verso i loro carnefici. Quella lettura ha generato in me gli anticorpi contro l’odio del diverso e un gran desiderio di giustizia. Diventando adulta le letture si sono fatte più numerose e intense e la mia coscienza civile si è costruita tassello dopo tassello, anche attraverso l’esperienza del dolore. L’avvicinarsi in punta di piedi alle vite degli altri e il far tesoro delle loro storie è ciò che mi ha portata a diventare una giornalista, una che va a cercare le storie, le verifica e poi le racconta.
Quell’anno, tra le tracce del tema di esame (all’epoca in quinta elementare si doveva affrontare un vero esame), c’era anche quella che invitava a invitare a parlare del libro di Levi. La affrontai, presi un bel voto. La questione mi era entrata nel cuore e proprio quel sentimento mi ha poi spinto ad essere sempre dalla parte di chi subisce guerre e persecuzioni. Al liceo si parlava dell’invasione americana in Iraq, della guerra in Bosnia e di altri conflitti. In quegli anni nelle Marche arrivarono profughi provenienti dai Balcani. Nei loro sguardi il terrore, il dolore, la paura. Era come guardare negli occhi di quelle persone il dramma delle vittime dei campi di concentramento, anche se le loro storie erano diverse.
Quel “mai più” a cui con forza hanno fatto appello i sopravvissuti, è rimasto, purtroppo, solo un augurio. Il mondo è pieno di atrocità e ancora oggi c’è chi alimenta in modo strutturale l’odio verso il diverso, giustificando violenze e scatenando operazioni di terrorismo e guerra contro innocenti. Esistono anche i negazionisti delle tragedie di ieri e di oggi. Ciò significa che bisogna lavorare molto di più sulla cultura, sottrarre la narrazione a chi fa apologia di odio e rimettere al centro di ogni impegno la tutela delle vite dei civili di ogni etnia e religione. La cultura, la consapevolezza di ciò che è stato, devono tornare a generare anticorpi contro l’odio razziale.
Devo sicuramente ringraziare la maestra Lucarelli per aver messo sul mio cammino quel libro e con lei devo ringraziare tutti gli altri insegnanti che ho avuto, perché non si sono mai attenuti al solo programma didattico, ma sono andati oltre, facendo dell’educazione civica una palestra per fare di noi alunni e cittadini consapevoli, amanti della Legge, ma anche persone vigili e sensibili.
Il lavoro di giornalista mi ha spinto ad andare ancora più a fondo rispetto a certe vicende e anche il dolore provocato dalla guerra in Siria mi ha avvicinato ancora di più alla comprensione del dolore degli altri e di chi ogni giorno lavora per tenere viva la memoria. Lo scorso anno sono andata con una mia amica, una studiosa, ricercatrice di fede ebrea, esperta in didattica della Shoah, a visitare l’antico ghetto, a osservare con silenzio e rispetto le pietre di inciampo, a visitare quei luoghi dove è ancora tragicamente vivo il ricordo degli orrori dei rastrellamenti. Mi ha avvicinato molto a lei la lettura del suo lavoro in archivio, quella ricerca di documenti che ridavano un nome e un’identità alle vittime, collocandole storicamente e geograficamente. Una sera pubblicò un documento relativo a un bambino. Un bambino mandato a morire lontano. Ho voluto avvicinarmi a quelle storie, che sembrano così lontane, ma che in realtà accadevano nel 1943, non venti secoli fa. Non ci si può dimenticare, la storia e le sue conseguenze vanno affrontate. L’occasione della Giornata della Memoria va colta come momento per interrogarsi su ciò che è stato e fare i conti con quel passato, per avere uno sguardo vigile sul presente.


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