Nei primi giorni di questo nuovo ma già ‘presumibile’ anno ci si trova a ripensare a quanti amici, interpreti, compagni di strada (di teatro, di cinema, di arte dello spettacolo) si sono trovati a “sostare per sempre” nel corso di una lunga estate mai così irta, impietosa di lutti improvvisi o relativamente ‘annunciati’.
Omissione non perdonabile (ma attenuata dalla frastornante ridda dai mattinali necrologici): non avere scritto e quindi “reso giustizia” (per quel che ci compete) ad uno fra protagonisti della scena ‘sperimentale’ del dopoguerra – il grande ma pur dimenticato Cosimo Cinieri- scomparso a tarda estate nel quasi unanime silenzio di giornali ed agenzie (e la sola eccezione, va detto, di Repubblica e il Messaggero).
“E’ già tanto se il suo nome verrà associato, anche da nuovi critici e studiosi di teatro, a quello di Carmelo Bene” (con il quale si trovò a lavorare dal 1974 al 1979) – commentava con smaliziata amarezza un collega, giorni or sono.
Ben sapendo, invece, che l’irruenza di ricerche, impresariato, azzardati accostamenti autorali hanno innervato, per decenni, la quasi inesauribile vena aurifera di Cinieri, anch’egli figlio della fervida, visionaria, gagliardamente anarchica provincia italiana (era nato a Taranto nel 1938) che preferiva darsi- senso (ieri come oggi) “espatriando” dalle parti di Roma, Milano, o della Scandinavia del brindisino Eugenio Barba, quale cimento- e sfida- nei confronti di tutti i meridioni, e terre desolate, avvolti in quella “spirale di nebbia” teorizzata a suo tempo dal caro Michele Prisco.
Nipote del commediografo e sceneggiatore Cesare Giulio Viola (sodale di De Sica e Zavattini per “Sciuscià”, che gli valse la candidatura agli Oscar), Cinieri intraprende il suo percorso d’arte (e relativo apprendistato) sin da ragazzo, spaziando dal ‘teatro di strada’ ai presagi del ‘grande palcoscenico’. Nel solo 1965, il suo carnet di arruolamento al teatro di ricerca comprende (da “Aspettando Godot” di Beckett a “Libere stanze” di Lerici) una mezza dozzina di titoli che già appartengono agli annali del teatro, mediante l’ “avventurosa”, ondivaga regia di Carlo Quartucci e del suo Camion itinerante per la periferia di un paese “miracolato” dalle cambiali e dalle ultime briciole del New Deal.
Dal 1968 al 1972, Cosimo Cinieri realizza in proprio una serie di messinscene di cui è anche autore, e che andrebbero (a dir poco) almeno ‘ripassate’ nei limiti dei relativi copioni tutti reperibili presso le biblioteche della Siae. Valga, ad esempio, il caso di “Onan”, “Domenico al mare”, “San Sebastiano”, turgidi, provocatori allestimenti innervati dal gusto dell’eccesso e dell’invettiva mai fine se stessi, ma in genere indirizzati alla refrattaria coscienza civile (e morale) di una politica culturale sempre periclitante nel paese dei santi e naviganti. Usati come mostrine di fuligginosa araldica dalla sempre diffusa ignoranza di chi detiene “i poteri decisionali”
Conosciuta (a fine anni settanta) la regista Irma Palazzo (che diverrà sua sodale di lavoro e di vita), Cosimo Cinieri consolida la sua voglia di autonomia e indipendenza, facendo “ditta” con la nuova compagna e percorrendo le tre strade parallele (oggi storicizzabili) della ricerca più appassionata, anzi tutta ‘anima e corpo’: la translitterazione della poesia dalla pagina scritta all’investitura drammaturgica; la reinvenzione e rivisitazione (senza cavezza) dei grandi classici europei; la drammaturgia breve capace di accostare (con premeditato azzardo) Pinter a De Filippo, Feydeau a Pirandello, Garcia Lorca a Cecov, Dario Fo a Schnitzler.
Saranno certamente, per Cinieri e la Palazzo, gli anni della loro “meglio gioventù” , parzialmente integrati da una breve collaborazione con Mario Missiroli e Leo De Beradinis – e dalla crescente partecipazione dell’attore a fiction televisive e film di variabile livello (da “Tre nel mille” a “Pizzicata”, da “Le vie del Signore sono finite” sino al più recente “Le guerra horrende” che, di fatto, è la sua ultima performance, antecedente di poco la malattia che lo costrinse al congedo).
Del tutto personale è il ricordo (dunque le qualità) di Cosimo Cinieri, nomade fremente di ogni forma di spettacolo: impetuoso, ma capace di ironia e sberleffo (verso se stesso), vero tetragono del perfezionismo, ma subito dopo burbero divertente (ed ‘arrendevole’) ben lieto di sospendere le prove per una meritata cena in fraschetta o in osteria, secondo gli occasionali luoghi di lavoro. Gli amici più intimi, a volte, lo canzonavano dandogli del Cerbero (la sua “maschera” in vero sapeva essere truce). Ma egli immediatamente controbatteva “Preferisco Caronte, almeno so dove traghettarvi”
Ineffabile….