Chi è il poeta prediletto da Elsa, la ragazzina ebrea nascosta in casa da Rosie, la madre di Jojo, nazista in erba? E’ il grande poeta tedesco Rilke. Amare la poesia significa unire, andare oltre i pregiudizi. La Germania hitleriana è alla fine, eppure è quanto mai pericolosa. Come una tigre messa all’angolo. Morta la figlia Inga e con il marito disperso da qualche parte, Rosie lotta come può contro il regime all’insaputa del figlio decenne, che invece sta, indottrinato, nella Gioventù Hitleriana. Johannes Betzler tra un’esercitazione e l’altra, è stato chiamato Jojo Rabbit dai camerati, guidati dal capitano Klenzendorf e dalla signorina Rahm, perché non ha saputo uccidere a sangue freddo un piccolo coniglio. Per rimediare ha provato il lancio maldestro di una granata rimanendone ferito e sfigurato. Il suo fanatismo è tale che, invece del paffutello Yorki che gli vuole bene, sceglie come amico immaginario un ridicolo Hitler, che con i suoi consigli lo accompagna dispoticamente nel corso dei giorni. Tutto comincia a cambiare quando scopre che nella soffitta di casa si nasconde Elsa, amica della sorella. Da quel momento la ragazza, all’insaputa di Rosie, diventa una presenza costante nella vita del piccolo nazista. Jojo non può denunciarla, altrimenti la madre ne subirebbe le conseguenze, e allora ne approfitta per conoscere meglio i segreti degli ebrei, che hanno corna e leggono nella mente. Giorno dopo giorno i due si affrontano: “Ora mi dici tutto sulla razza ebraica” – “Tu sei stato cresciuto da un patetico ometto a cui nemmeno crescono i baffi.” Poi si confrontano, ma non è facile convincere Jojo che gli ebrei sono uomini come tutti.
“Non lo conosci. E’ un fanatico. Ci ha messo tre settimane per superare il fatto che suo nonno non era biondo”, dice la madre Rosie ad Elsa.
Tratto dal romanzo di Christine Leunens e sceneggiato dallo stesso regista Taika Waititi, che veste anche i panni di Hitler, Jojo Rabbit vede all’opera un ottimo cast. Roman Griffin Davis è il bravo protagonista, piccolo come il suo amico Yorki, interpretato da Archie Yates. E’ affiancato, per modo di dire, dalla madre Scarlett Johansson, e dalla “nemica” ebrea Thomasin McKenzie. Rebel Wilson è l’efficace nazista Fräulein Rahm, mentre Sam Rockwell è il sorprendente capitano Klenzendorf.
In un riflessivo libricino di pochi anni fa, Contro il giorno della memoria, Elena Loewenthal scriveva: “Comunque le cerimonie del GdM, gli eventi che lo circondano continuano a suscitarmi un doppio disagio. Il primo viene dalla contraddizione in termini di celebrare una ricorrenza con qualcosa che sia sempre <<nuovo>>. Il secondo è un vago, scomodo senso di vuotezza. Di insensatezza che la celebrazione porta con sé.” Eppure, per molti, ignari di ciò che è stato il nazi-fascismo, il 27 gennaio è una delle poche occasioni in cui si possono (ac)cogliere parole resistenziali contro i rigurgiti antisemiti e razzisti che in Europa sembrano sempre più diffusi.
Fra le molte proposte di riflessione editoriale e visiva che annualmente – e siamo ben consapevoli del rischio di mercificazione – vengono offerte al pubblico c’è questo film particolare di Waititi, già regista di Vita da Vampiro e Thor: Ragnarok. Non è semplice individuare il genere di Jojo Rabbit, candidato a numerosi premi internazionali.Per restare in ambito nostrano e a “uso e consumo” del pubblico italiano, diremmo presenti riflessi di film come La grande guerra di Monicelli o Tutti a casa di Comencini, piuttosto de La vita è bella di Benigni, per il riuscito mélange di commedia, forse una favola, e dramma. Per la figura di Hitler il confronto va fatto certo con il Grande dittatore, tuttavia il modello chapliniano risulta ovviamente irraggiungibile sia per contesto che ispirazione. Comunque Jojo Rabbit ha una buona capacità attrattiva per l’abilità del regista neozelandese di saper dosare con precisione il passaggio dal sorriso alla commozione, che scaturisce come un fulmine a ciel sereno con l’impiccagione dei nemici del Reich. La scena è di alta resa drammatica e inaugura la seconda parte del film, in cui irrompe la violenza della guerra. Fino a quel momento l’opera di Waititi era stata dominata dai toni leggeri e ironici della commedia e dai colori sgargianti della campagna tedesca, lontanissima dalla linea oscura del fronte, di cui giungeva solo qualche eco. Dopo prove di ogni genere, (ri)scrivere sul nazismo è sempre difficile. Non è da poco raccontare cosa è stato la persecuzione contro gli ebrei, e provare a farlo con toni paradossalmente lievi, quando il tema stesso è così orrendo. Il rischio di fallire è sempre dietro l’angolo, ma Taika Waititi, di padre maori e di madre ebrea, si è assunto l’onere di farlo e ci ha lasciato un film comunque commovente, dove tutti hanno perso qualcosa: Rosie, la figlia e marito; Elsa, la famiglia e il fidanzato; Jojo, il padre. Nessuno, però, ha perso veramente la speranza.