La vicenda dell’istituto scolastico romano che divide gli alunni in base al censo (i ricchi con i ricchi, i medi con i medi, i poveri e gli stranieri fra di loro), stando ben attenta a dislocare ciascuno nel quartiere che compete al suo rango, la dice lunga su cosa sia diventata oggi la nostra società.
Ciò che indigna più d’ogni altra cosa è l’ipocrisia. I soloni e i politicanti che ora alzano il dito e si scagliano come un sol uomo contro la preside, che probabilmente è una povera crista costretta a fare i conti con le immense difficoltà con cui è costretto a fare i conti ciascun dirigente colastico in una scuola sempre più povera e in ginocchio, sono gli stessi che, passata la buriana, salvo rare eccezioni, torneranno a elogiare le salvifiche virtù del merito e della competizione sfrenata. Sono gli stessi, per intenderci, che hanno infestato il dibattito pubblico sull’istruzione con esaltazioni acritiche di quiz, crocette, valutazioni a ogni piè sospinto, test INVALSI e altre bestialità il cui unico scopo è quello di esaltare una visione mercatista che altro non è che la morte dei princìpi costituzionali legati alla scuola.
Secondo Calamandrei, tanto per citare un padre costituente, la scuola era infatti l’unica istituzione in grado di compiere il miracolo di trasformare i sudditi in cittadini. Un miracolo che, evidentemente, a qualcuno oggi dà fastidio, dato l’impegno profuso per distruggerla e renderla sempre più insostenibile, noiosa, nozionistica, con insegnanti pagati sempre peggio e sottoposti a ogni sorta di stress, precariato a vita, presidi non più all’altezza, complessivamente, di quelli del passato, in alcuni casi dei veri e propri simboli, e soprattutto programmi obsoleti e non al passo con una società sempre più turbolenta e bisognosa di guardare al futuro.
L’idea stessa che licei prestigiosi come il Visconti di Roma, situato in pieno centro e con allievi del calibro di Andreotti e Pio XII, sia stato costretto, due anni fa, a vantarsi di essere frequentato solo dai ceti più abbienti e dal generone capitolino, la dice lunga sul senso di insicurezza che pervade anche chi, teoricamente, non dovrebbe avere queste preoccupazioni.
E allora occhio, monitoriamo la vicenda. Sarebbe difatti esiziale se, al termine di questa canofiena, a pagare per tutti fosse solo la preside, consentendo ai suoi accusatori di tornare subito dopo a infliggere alla scuola i colpi mortali che l’hanno ridotta nelle condizioni in cui versa attualmente.
Spiace dirlo agli analfabeti funzionali che pontificano di ciò che non conoscono con innata arroganza, ma la scuola deve tornare a essere una comunità, non un mercato del pesce, non un luogo avvelenato da una competizione fasulla e mefitica, non un avamposto dell'”homo homini lupus” che è diventata la nostra società, modellata negli anni Ottanta dal thatcherismo e definitivamente distrutta da una sinistra che ha preferito seguire la corrente anziché contrastare la deriva in atto.
Quando tutto viene mercificato e l’uomo stesso è considerato alla stregua di un oggetto è normale che anche la scuola si trasformi in una vetrina, e in vetrina nessun commerciante esporrà mai un oggetto fallato o un abito che non attiri l’attenzione del cliente.
Ricordo quasi con commozione quando un mio docente universitario, condannando la pratica della valutazione e dell’autovalutazione, bacchettò davanti alla classe un collega che si era permesso di definirci “clienti”. Sosteneva, il galantuomo, che il termine clienti attribuito agli studenti minasse le fondamenta stesse dell’università, a meno che non si intenda abolire l’articolo 34 della Costituzione.
Ma del resto perché sorprendersi? Perché sorprendersi se oggi l’unica voce che si leva contro la globalizzazione dell’indifferenza e la società dello scarto, dell’esclusione e del darwinismo elevato a dottrina economica e ideologia politica è quella di papa Francesco, nel silenzio di una sinistra globale assente e di una sinistra italiana ridotta pressoché al ridicolo?
Dopo quarant’anni di thatcherismo, avete ciò che volevate: una scuola di classe, una società di classe e un mondo in cui pochi vanno avanti e le plebi, sempre più ignoranti e abbandonate a se stesse, arrancano e alle urne, quando vi si recano, votano come peggio non si potrebbe.
Cantava Pietrangeli in “Contessa”: “Anche l’operaio vuole il figlio dottore”. Era il ’68, quando in effetti gli operai si toglievano il pane di bocca affinché i propri figli potessero avere un avvenire migliore. Poi ci hanno raccontato che “la società non esiste, esistono solo gli individui” e noi siamo stati così imbecilli da crederci pure.
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