Albert Camus, l’uomo in rivolta

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Non cerchiamo di comprendere, a sessant’anni dalla scomparsa, un magnifico irregolare come Albert Camus. Non arrechiamo a un genio di quel calibro il peggior dispetto che si possa arrecare ai geni, ossia provare a normalizzarli, a inscatolarli, a inserirli nei nostri schemi preconfezionati che nulla hanno a che spartire con la magia della loro naturale irriverenza.

L’algerino Albert Camus, proveniente da una famiglia di pied-noir, di origini umili e nonostante questo capace di giungere alla laurea, seppe successivamente conquistare la Francia con la sua arte improntata al dubbio e alla condanna di un modello sociale che lo faceva soffrire e rispetto al quale si considerava apolide. Uno straniero, per l’appunto, un uomo in rivolta: pochi scrittori sono stati altrettanto autobiografici, pochi autori hanno saputo trasmettere ai propri personaggi la stessa impronta, quel toco che ha reso immortali le creature camusiane e ancor più i suoi paesaggi, spirituali e non solo. La città di Orano, tanto per citare un esempio, quel lembo di Algeria nel quale si ambientano sia “Lo straniero” che “La peste”, è la perfetta metafora del mondo contemporaneo, il che rende bene l’idea dell’universalità dell’opera di un artista che amava guardare lontano, pensare in termini globali, soffermarsi sui minimi dettagli, scrutare nelle pieghe dell’animo umano e cercare di individuare e descrivere le falle di un universo che lo nauseava sempre di più, con la sua ipocrisia, la sua miseria morale, il suo vuoto. Ecco, se c’è un elemento ricorrente, tanto nei romanzi quanto nella saggistica di Camus, è il vuoto. Le sue opere, infatti, altro non sono, a parer mio, che la continua descrizione di un’assenza, di una mancanza d’orizzonte, di un destino dolente e di un declino che appariva ai suoi occhi inesorabile, proprio come lo strazio di Sisifo al cospetto della sua interminabile fatica. Eppure, questa condizione esistenziale senza sbocco era in contrasto con il suo desiderio ardente di ribellione, con la sua profonda inquietudine, con la sua volontà di immaginare persino un Sisifo felice. In Sisifo vedeva, al contempo, la condizione dell’uomo com’è realmente e quella che, invece, sognava, nel contrasto fra l’impossibilità di opporsi al male e il bisogno interiore di battersi comunque contro di esso. Del resto, altro non è stata la sua breve e intensa vita che una contraddizione in termini, un continuo pendolo fra la gioia e il tormento, la serenità e l’inferno, fra la tubercolosi che lo colpì da giovanissimo e la normalità di una famiglia non propriamente ideale ma comunque stabile, anche se sottoposta al continuo stress del suo vero amore che non era quello per la moglie Francine Faure ma quello per l’attrice spagnola Maria Casarès.

Non aveva un rapporto facile neanche con Parigi: l’opulenta Parigi, la splendida Parigi, la città degli amati caffè letterari ma anche dei grandi contrasti, letterari e non solo, su tutti quello con Sartre in merito al ruolo del comunismo nel mondo e alla sua mancata acettazione dei dogmi sovietici derivanti dalla Guerra fredda.

La sensazione, ripensando alla rottura fra i due, è che Sartre fosse in qualche modo etichettabile, almeno in quegli anni, Camus no. L’immagine adatta a descrivere la personalità di Camus è quella di una piuma che si libera nel vento e va dove lo porta la scrittura, fino a renderlo inviso a tutti i poteri, fino a provocargli nemici tanto nella CIA quanto nel KGB quanto nei servizi segreti francesi e persino nell’OAS. Tutti i potenti, di ieri, di oggi e di sempre, d’altronde, non possono che sentirsi minacciati da un intellettuale sostanzialmente anarchico, appartenente unicamente alla sua voglia di denunciare ogni stortura e non riducibile ad alcuna precisa ideologia.

Senza voler approfondire le teorie complottiste relative all’incidente d’auto in cui perse la vita il 4 gennaio 1960, mentre viaggiava in compagnia dell’editore Gallimard, non c’è dubbio che i potenti dell’epoca, nell’apprendere la notizia della sua morte, abbiano tirato un sospiro di sollievo. Ciò che non avevano calcolato, nella loro piccineria, è che la grandezza di Camus sarebbe stata eterna, tanto che le sue opere, sessant’anni dopo, sono più vive e attuali che mai; anzi, sembrano parlare più ai contemporanei di quanto non parlassero ai coetanei dell’autore, considerando quanto siamo immersi nella stagione degli slogan che hanno sostituito il dialogo e del terrore dell’altro, in particolare se proveniente dall’Africa, che altro non è che la rappresentazione plastica di un conflitto interiore che non siamo in grado di affrontare.

Lo straniero, inteso nel senso di Camus, è, per l’appunto, quell’uomo in rivolta che cerca disperatamente il proprio posto nel mondo ma sa di non poterlo trovare; e il suo apparente distacco dalle vicende terrene, da qualcuno erroneamente accostato al nichilismo, lo rende, al contrario, straordinariamente partecipe di tutto. Questo è stato Camus nei quarantasei anni che ha avuto in sorte di vivere su questa Terra: innanzitutto, un inarrivabile osservatore e poi un cantore delle nostre paure inconsce, le stesse che sei decenni dopo inducono molti a invocarlo per provare a comprendere l’inafferrabile società attuale.

Perdendo Camus, la Francia ha perso una parte di sé. Provando a dimenticarlo, ha perso l’altra. Per fortuna, tanto la Francia quanto l’Europa non ci sono riuscite.

P.S. Cinque anni fa, a soli cinquantanove anni, ci diceva addio Pino Daniele. Ci manca la sua giovialità, la sua napoletanità verace, la sua musica profonda, il suo carattere aperto e solare ma, soprattutto, ci manca un uomo ricco di umanità, interprete di tutti quei valori di fratellanza, condivisione e autenticità che sembrano, purtroppo, essere andati perduti.


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