La stella vincente di Luigi Di Maio ha brillato solo per 2 anni e 4 mesi. Lo scorso mercoledì 22 gennaio Di Maio si è dimesso da capo politico del M5S, era stato eletto nel settembre 2017 sommando anche il compito di candidato premier grillino.
Ha perso. Ha ringraziato Beppe Grillo, Gianroberto e Davide Casaleggio, Giuseppe Conte e si è dimesso accusando i nemici esterni ma soprattutto quelli interni, “i traditori”, chi «è uscito allo scoperto solo per pugnalare alle spalle» (Di Battista, Paragone, Giarrusso?). Ha riconosciuto il bilancio insoddisfacente dei due governi cinquestelle, il primo con la Lega e il secondo con il Pd, ma ha sollecitato a continuare a sostenere il governo Conte due con un insolito elogio della Prima Repubblica: «I risultati si vedranno ma dobbiamo avere il tempo di mettere a posto il disordine fatto da chi ha governato trent’anni prima». Ha messo sul banco degli imputati «chi ha governato trent’anni prima», cioè i protagonisti della Seconda Repubblica che hanno cancellato la Prima. Uno strano apprezzamento indiretto per la Prima Repubblica non citata.
La parabola di Di Maio è stata rapidissima: dalle stelle alla polvere. Trionfò nelle elezioni politiche del 2018 con il 32% dei voti e il M5S divenne il primo partito italiano. Commentò euforico: «Inizia oggi la Terza Repubblica, quella dei cittadini». Divenne vice presidente del Consiglio, ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico nel governo Conte uno, quello con Salvini. Ma il trionfo durò poco. Da allora il populista Di Maio ha perso un fiume di voti verso il populista sovranista Salvini. Ha collezionato disastrose sconfitte: appena il 17% dei voti nelle europee del 2019. Ha perso tutte le elezioni regionali (il crollo al 7% in Umbria ha fatto traboccare il vaso). Sarà un caso ma si è dimesso alla vigilia del voto del 26 gennaio in Calabria e, soprattutto in Emilia Romagna (tutti i segnali sono pessimi).
Il “sorpasso” della Lega sul M5S come primo partito italiano gli è stato fatale. Di qui “il passo di lato”. Di Maio si è dimesso da capo politico pentastellato e rimane ministro degli Esteri, un ministro indebolito dopo aver lasciato il timone di comando della malandata nave grillina.
Troppi errori. «Mai alleanze» con i partiti tradizionali avevano promesso dall’opposizione Grillo e Di Maio, invece i grillini si sono alleati prima con Salvini e poi con Zingaretti. Avevano sostenuto l’originalità anti sistema della loro visione euroscettica: il M5S non è «né di sinistra né di destra». Invece i pentastellati si sono divisi tra chi voleva l’intesa con la Lega e chi con il Pd, i due nemici attaccati e insultati per anni.
Gli elettori sono rimasti delusi dalle mirabolanti promesse grilline, realizzate solo in minima parte dai loro due governi formati con gli ex nemici leghisti e democratici. Di Maio, di volta in volta, ha vestito i panni diversi del leader anti sistema e di governo. Per il futuro sembra confermare questa doppia linea di lotta e di governo: «Il Movimento è nato per scardinare il potere costituito» ma «stando al governo abbiamo scoperto quanto sia difficile».
Ha indicato la necessità di “rifondarsi” ma rimanendo ancorati alla rivoluzione populista: «Siamo stati l’incubo degli analisti ma non è finita, è appena cominciata. Il progetto di crescita per i prossimi decenni continua». Difende l’impostazione riformista dell’economia verde, dell’Europa, dell’Alleanza Atlantica.
Di Maio si è dimesso ma sembra quasi una possibile ricandidatura per il futuro. Tuttavia il suo «progetto di crescita» non ha funzionato né per il Movimento 5 stelle né per l’Italia.
Per il futuro si vedrà .Il vice ministro dell’Interno Vito Crimi è subentrato alla guida del MS5 con la qualifica di reggente. Lo stesso Crimi punta a fare il capo politico, ma in corsa potrebbero scendere anche il ministro Stefano Patuanelli, la scatenata Paola Taverna e il movimentista Alessandro Di Battista, amico antagonista di Di Maio.