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Diritti Umani. Rivolte e repressione in Iran. Gli interrogativi che restano aperti

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La durissima repressione delle proteste innescate  a metà novembre dall’improvviso rincaro della benzina, e il totale blocco di internet che ha impedito per giorni i contatti con l’esterno, resteranno indelebili nella memoria di tutti. Centinaia di morti in pochi giorni, di cui non si hanno ancora notizie ufficiali, insieme a circa 7 mila arresti, hanno certo segnato un punto di svolta nella storia recente della Repubblica Islamica. Un Paese dove i più attenti osservatori hanno sempre visto coesistere, accanto a gravi limitazioni dei diritti umani dettate dalle leggi o dall’arbitrio di chi occupa posizioni di potere, anche un’articolata dialettica tra diverse forze e posizioni politiche interne al sistema, rispecchiata in un panorama mediatico relativamente diversificato .

Nel dibattito politico interno vi è insomma sempre stata una diversificazione di posizioni tra i cosiddetti ‘moderati’, negli ultimi anni identificati con il governo di Hassan Rouhani – attorno al quale si sono raccolte anche alcune forze riformiste dopo la dura repressione dell’Onda Verde del 2009 – e i cosiddetti ‘ultraconservatori’ più vicini alla Guida suprema Ali Khamenei, alla magistratura e all’ala dura rappresentata dai Pasdaran, corpo militare nato nel 1979 per difendere la rivoluzione e ora trasformato in un potentato politico che controlla oligarchicamente anche una buona parte dell’economia.

Queste almeno le chiavi di lettura usate da chi guarda alla Repubblica Islamica non come ad un unico blocco totalitario, magari da condannare a priori, ma come ad un organismo ibrido in cui convivono elementi democratici e teocratici, organi eletti a suffragio universale e altri non eletti ma che definiscono i margini di autonomia dei primi, secondo dinamiche interne complesse e mai scontate, e che possono essere influenzate da fattori esterni come il grado di conflittualità in atto con altre potenze regionali o con gli Usa.

E’ questa, ad avviso di chi scrive, una premessa necessaria per valutare anche i tragici eventi delle ultime settimane, ma anche per inserirli in un contesto più ampio: quello dello scenario internazionale mutato tre anni fa dall’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca e dalla sua decisione di uscire dall’accordo sul nucleare. Quel Jcpoa in cui Teheran rinunciava ad una parte della sua sovranità in tema di politica energetica e accettava di limitare per 15-30 anni il suo nucleare civile, per venire incontro al timore della comunità internazionale che tale programma avesse anche scopi militari.

E da queste premesse parte anche un’intervista fatta nei giorni scorsi per email ad Azadeh Pourzand (nella foto), ricercatrice sui diritti umani, ospite il 10 dicembre di un incontro a Roma nella sede della FNSI, promosso da Articolo 21 e da Amnesty International. Quanto segue è una sintesi di tale intervista. Cui però si antepongo alcune domande che restano aperte e qui si rilanciano.

 

  • Se a novembre vi è stata una così sistematica violazione dei diritti degli iraniani, tanto grave da giustificare la più severa delle condanne, quale strada politica si può realisticamente suggerire per uscire dalla crisi senza altro spargimento di sangue?
  • Se l’accordo sul nucleare non fosse stato tradito dagli Usa e questi ultimi non avessero legato le mani all’Europa con le sanzioni secondarie, per meglio ottenere il risultato di strangolare l’economia iraniana, si sarebbe arrivati ugualmente a queste dimensioni della crisi, anche tenendo conto delle disfunzioni interne e del malgoverno dell’economia iraniana, e all’escalation militare cui abbiamo assistito nei mesi scorsi nel Golfo?
  • Benché debole attore della politica internazionale, che via dovrebbe scegliere ora l’Europa: quella di isolare ulteriormente l’Iran, intraprendendo anch’essa la strada dell’uscita dall’accordo sul nucleare in risposta al graduale disimpegno avviato per reazione da Teheran, o quella di tenere aperti i canali della diplomazia per favorire la ricerca di un nuovo compromesso?
  • Infine, alla luce di questi diversi possibili scenari, come dovrebbero agire i difensori dei diritti umani?

Azadeh Pourzand, le “differenze” politiche interne non ci sono più

Cosa ha spinto anche l’ala ‘moderata’ di Rouhani  a permettere una repressione così aspra, pur sapendo che questa probabilmente porterà ad  una sconfitta alle elezioni parlamentari del prossimo febbraio e alle presidenziali del 2021? Sostanzialmente, al suo stesso ‘suicidio politico’?
Senza negare che vi sia una certa misura di differenze di opinione, di divergenze e perfino di conflitti nell’ambito della classe dirigente, questa costante categorizzazione dell’elite al governo che distingue tra ‘moderati’ e ‘ultraconservatori’  può essere da una parte semplicistica, dall’altra fuorviante.
La generale cattiva gestione economica del Paese, che si attribuisca agli uni o agli altri, è ben evidente sia agli iraniani che al mondo esterno. Un malgoverno dell’economia che ha già raggiunto un punto di crisi da tempo, in concorso con l’impatto delle sanzioni . Quindi non credo che l’innesco delle proteste sia stato solo questo, ma piuttosto che esista un profondo senso di sfiducia verso le decisioni e le promesse delle autorità, siano esse ‘moderate’ o della ‘linea dura’. Sebbene il governo abbia provato a spiegare che l’improvvisa decisione di aumentare il prezzo della benzina servisse a creare risorse da destinare ai ‘bisognosi’, e abbia promesso che non vi sarebbero state conseguenze sui prezzi delle altre merci, quelli che sono scesi in strada, spesso dagli strati più poveri della società, non credevano alle parole delle autorità. Quindi dobbiamo registrare una profonda mancanza di fiducia, unita ad un senso di disperazione per la situazione economica appunto radicata nella cattiva gestione: disperazione che si è trasformata in una richiesta politica, in quanto la libertà di associazione è quasi inesistente. E’ vero che i tempi e i modi della decisione sulla benzina sono stati in  qualche modo un suicidio politico (dei moderati, ndr) in quanto le proteste avrebbero potuto essere ritardate, se non evitate. Ma il vero suicidio politico è la decisione collettiva, e ripeto collettiva, dell’elite di governo della Repubblica islamica, forse su mandato della  Guida Suprema, di resistere economicamente all’Occidente “imperialista” e alle sanzioni Usa – costringendo così gli iraniani a soffrire economicamente e a sentirsi repressi perfino all’inizio di un semplice atto di protesta –  invece di cercare una soluzione più pragmatica per porre rimedio alle sofferenze della gente.

Di fatto queste ultime proteste hanno già condotto ad una vittoria politica dell’ala dura, e qualcuno teme perfino che vi possa essere in futuro un colpo di stato militare.
Queste proteste hanno portato ad una riduzione della frammentazione politica al’interno dei livelli più alti della classe dirigente, nell’urgenza di decidere la repressione. Khamenei e Rouhani si sono alleati in una politica di massima repressione. Al di là delle elezioni, la Repubblica Islamica ha un compito difficile davanti a sé, nella sua determinazione a condurre una vasta repressione dei  cittadini,  nel mantenere una qualche legittimità di fronte al mondo esterno e nel sostenere il peso delle sanzioni in una economia nazionale già condizionata dalla corruzione e dal suo malgoverno.

Alcuni parlamentari hanno chiesto una commissione parlamentare di inchiesta sul l’accaduto, ma dall’estero si chiede anche una commissione di esperti Onu. Cosa ne pensa?
Sebbene parlamentari come Parvaneh Salahshouri (una donna e una riformista che ha appena fatto un discorso molto duro nel Majlis anche accusando alcuni settori del sistema di andare verso una dittatura, ndr).  abbiano fatto bene a chiedere una commissione, vi è  urgente bisogno di un comitato di esperti indipendenti nominati dall’Onu per una indagine indipendente all’interno del Paese. Nessuna commissione nazionale avrebbe l’indipendenza necessaria per essere oggettiva.

Se Trump non si fosse ritirato dall’accordo sul nucleare, tutto questo sarebbe ugualmente accaduto?
Non credo che la decisione di Trump di ritirarsi dall’accordo sul nucleare sia la sola ragione all’origine delle proteste,  anche se naturalmente ne è un fattore. Penso che le rivolte in Iran siano avvenute e che sarebbero comunque avvenute, e che forse i loro tempi e le loro dimensioni sarebbero state in qualche modo diversi.


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