Angelo Savelli regista del Teatro di Rifredi – “Pupi e Fresedde” ha vinto il Premio speciale Ubu 2019 «Per l’intenso lavoro di traduzione, allestimento e promozione della nuova drammaturgia internazionale»: un riconoscimento ad Angelo Savelli traduttore e regista impegnato da anni nel portare in Italia drammaturghi stranieri come Rémi De Vos o Josep Maria Mirò, di cui è stato messo in scena Il Principio di Archimede, uno degli spettacoli più riusciti della scorsa stagione. Nel 2019 Angelo Savelli ha tradotto e diretto anche Tebas Land di Sergio Blanco per la prima volta rappresentato in Italia. Un premio condiviso con Giancarlo Mordini direttore artistico e a tutto lo staff, a dimostrazione dell’impegno nel far conoscere drammaturghi stranieri. La consegna del Premio UBU è avvenuta lunedì 16 dicembre al Piccolo Teatro di Milano Mariangela Melato (trasmessa in diretta su Radio Rai 3. A ritirare il premio lo stesso Angelo Savelli, accompagnato da Francesco De Biasi (socio di Pupi e Fresedde) e Samuele Picchi (uno dei due protagonisti di Tebas Land insieme a Ciro Masella). Nel frattempo nel foyer del Teatro di Rifredi si è festeggiato offrendo al pubblico vin brulè e caldarroste: un centro di produzione teatrale e artistico divenuto negli anni luogo di aggregazione e inclusione culturale come pochi. La partecipazione entusiasta al gruppo di ascolto lo sta a dimostrare nelle immagini divulgate sui social in cui si poteva ascoltare la diretta radiofonica. Un teatro capace di formare una comunità dove ritrovarsi, condividere il lavoro artistico e non fruire semplicemente dello spettacolo messo in scena.
Al ritorno a Firenze il regista Savelli, Giancarlo Mordini e Francesco De Biasi sono stati ricevuti dall’assessore alla Cultura del Comune di Firenze e presidente del Teatro nazionale della Toscana Tommaso Sacchi per le congratulazioni e la foto di rito scattata nel ballatoio del salone dei Cinquecento a Palazzo Vecchio, in cui era presente anche Eugenio Giani presidente del Consiglio regionale della Toscana.
Tebas Land è l’ultimo dei successi messo in scena a Rifredi, scritto da Sergio Blanco, un drammaturgo e regista teatrale franco – uruguaiano ma residente a Parigi. Due gli attori scelti per l’edizione italiana diretti da Angelo Savelli: Ciro Masella e Samuele Picchi. Il debutto è avvenuto al festival di Todi nel mese di agosto e successivamente a Rifredi nel mese di ottobre in prima nazionale con 14 repliche da “tutto esaurito” dove Sergio Blanco era presente per presentare i testi editi dalla Cuepress. Dopo le repliche al Teatro Nuovo Sanità di Napoli, nel mese di febbraio 2020 lo spettacolo si potrà vedere allo spazio Diamante di Roma dove sono previste otto repliche dal 20 febbraio al 1 marzo. “Tebas Land” trae spunto dalla figura reale, letteraria, mitologica e psicoanalitica della figura del parricida. Sergio Blanco si è ispirato al mito leggendario di Edipo, alla vita del martire San Martino e a un fatto di cronaca giudiziaria, creato e immaginato dallo stesso drammaturgo, il cui protagonista è un giovane parricida dal nome Martino. La vicenda si svolge all’interno di un carcere durante dei colloqui tra il giovane condannato e lo stesso drammaturgo intenzionato a portare sulla scena la sua storia. La relazione che si instaura tra i due vira dalla semplice ricostruzione dei fatti di sangue ad una relazione tra lo scrittore e il detenuto e sull’ambiguità di poter trascrivere correttamente la realtà in una creazione artistica.
Tutto si complica quando il personaggio di Martino viene affidato ad un attore per interpretarne il suo ruolo e la dinamica assume una valenza diversa in cui il teatro stesso viene messo in discussione. Una scrittura capace di smontare le sequenze temporali fino a intersecare passato e presente come un gioco di scatole cinesi dove la narrazione del delitto commesso si interseca con un possibile riscatto-redenzione dalla colpa tremenda di aver ucciso il padre. La regia di Angelo Savelli ricrea la tensione emotiva che si coglie nella drammaturgia in modo esemplare supportato dalla bravura dei due attori in scena, efficaci nel dare vita ad una dinamica quasi un “gioco delle parti” di pirandelliana memoria. Pochi giorni fa è stata messa in scena una nuova versione a Riga in Lettonia. L’edizione in Brasile ha ottenuto il premio come miglior spettacolo dell’anno. Nel saggio “Autofinzione. L’ingegneria dell’Io”(la traduzione è di Annabella Canneddu) (edito da Cue Press nella collana “Gli artisti” per il volume “Teatro” dove sono pubblicati anche Tebas Land, L’ira di Narciso e il bramito di Düsseldorf (tradotti da Angelo Savelli), è possibile rintracciare la particolare poetica di Sergio Blanco dove il lettore e lo spettatore non riesce a distinguere quella che è la verità dalla finzione ma viene condotto verso una rappresentazione dalle mille sfaccettature sempre attente a cogliere aspetti etici e sociali che rappresentano la difficile esistenza dell’essere umano. Il drammaturgo ci ha concesso un’intervista in esclusiva.
Sergio Blanco ci spiega come è iniziata la sua ricerca sull’autofinzione?
«Ho sempre concepito il pensare come un meccanismo di auto – destabilizzazione e auto problematizzazione permanente: pensare è sempre pensare contro se stessi, è un esercizio in cui atteniamo continuamente al pensiero stabilito in precedenza. In tutti questi anni ho pensato l’autofinzione come una costruzione di strategie auto – offensive, cosa che mi permesso di procedere, qualche volta anche all’indietro. (..) Tutte queste idee e appunti sull’autofinzione, perciò, non saranno che un tentativo di avvicinarmi a quella che si può chiamare una scrittura dell’Io».
Il drammaturgo precisa però che la sua indagine non avrà certo un fondamento basato sulla «alcuna verità scientifica che possa rispondere alle massime di chiarezza e precisione – punto di partenza per un una conoscenza erudita, solida e il più possibile oggettiva – , ma poggerà si speculazioni oscure, confuse e caotiche risultanti da esperienze imminentemente soggettive».
Una ricerca continua, nutrita dal dubbio, dal quesito a cui cercare la risposta meno convenzionale e banale. Il suo saggio sull’Autofinzione lo definisce un «luogo di dubbi, di quesiti e interrogativi». L’Autofinzione è un neologismo coniato dallo scrittore Serge Doubrvsky nel 1977 per il suo romanzo Fils. Composto dal prefisso auto (io, sé) e dal sostantivo finzione (falsità, menzogna, invenzione) e riunisce in sé elementi autobiografici e finzionali. Nella conversazione con Sergio Blanco emerge una personalità aperta al confronto, una semplicità nello spiegarsi a fronte di tematiche complesse e rivelatrici di un sapere stratificato negli anni. Uno sguardo rivolto al mondo senza pregiudizi. Colpisce per l’umiltà nel suo agire da intellettuale e artista e lo dichiara bene quando scrive: «nessuna delle mie autofinzioni ha come obiettivo quello di promuovermi o rendermi popolare, al contrario, molto spesso le mie opere sono attestazioni di fragilità e vulnerabilità. Nelle mie storie di autofinzione provo a trovare le storie degli altri, per sentirmi meno solo. D’altra parte, raccontare se stessi, narrarsi, non è mai un atto d’amor proprio, al contrario, è un tentativo di farsi voler bene. La questione è semplice: non scrivo di me perché mi voglio bene a me stesso, ma perché gli altri mi vogliano bene. Perché è cosi irritante il desiderio di farsi voler bene? Esiste un atto meno arrogante del cercare l’amore degli altri?»
Sergio Blanco lei cita spesso nei suoi interventi il filosofo Emmanuel Levinas.
«Levinas è la base del gioco teatrale ma anche dell’esperienza vitale. L’umanismo è essenziale e io esisto solamente grazie all’altro e senza l’altro io non sono nessuno. La solitudine è un veleno per l’essere umano e questa filosofia, che l’altro è essenziale per il teatro, è fondamentale. Il teatro esiste se c’è un altro che mi guarda e basta pensare a quello che accade nel teatro greco. L’altro che guardo c’è nell’etimologia del nostro lavoro e aspettiamo che qualcuno ci guardi». Nella sua scrittura si riscontra un rimando pirandelliano tra le righe, come linguaggio meta teatrale: «Penso ai “Giganti della montagna” di Pirandello dove nel secondo atto una compagnia di attori si ritrova a vedere uno spettacolo recitato da altri e lo stesso accade con gli spettatori che sono con noi ed entrano nello spettacolo. Lo spettatore è anche poeta. Non sono io che decido da solo ma insieme al pubblico costruiamo una narrazione poetica. L’autofinzione non è egoismo o narcisismo, anzi è il contrario, cerco l’amore, cerco l’altro e sento il desiderio di essere amato. L’altro e l’uno è lo stesso. Quello che dico per me lo dico per l’altro. Penso ad esempio al conflitto in Turchia dove quando muore una persona moriamo tutti, è un pensiero che va rivolto a tutta l’umanità. L’autofinzione è quando parlo di me e allo stesso tempo parlo di tutti. Un atto di generosità nel parlare di tutti i corpi. Parla sempre di dolore».
Perché è così importante il dolore nell’autofinzione?
« L’autofinzione ha un aspetto curativo e catartico: è bene parlare di dolore. L’autofinzione propone un percorso dal “trauma” alla “trama”, cioè il parto del dolore, dell’angoscia, di qualcosa che mi ha fatto di sbagliato, e quando lo metto in parole, quando lo porto alla storia, allora gli do una trama e questo mi allevia il dolore. Nel suo straordinario romanzo “All’amico che non mi ha salvato la vita”, Hervé Guibert afferma che qualcosa come “la sfortuna doveva sorgere perché questo libro emergesse”. Nella sventura potrebbe esserci il germe di una nuova storia. Rumi dice al poeta sufi: “la ferita è il luogo in cui entra la luce, se lo permetti”. Il dolore può sempre essere il fondatore di qualcosa. L’auto-finzione non è promossa o sopravvalutata, ma può essere il contrario. Cito sempre come esempio gli autoritratti di Caravaggio che era molto duro con se stesso quando si trattava di ritrarre. Dipinge l’episodio di David e Goliath, ma non è ritratto nella testa di David ma nella testa recisa di Goliath. Devi avere il coraggio di farlo!. È inscritta nel gesto di Narciso e questo gesto non è quello di guardarsi in un atto di confinamento, ma piuttosto di guardare l’uno ma sempre cercare l’altro. Insisto sempre che la versione pausana del mito non è nota. Secondo Pausania, Narciso avrebbe avuto una sorella gemella che avrebbe ucciso dalle ninfe, e quindi quando Narciso va a vedere l’acqua, ciò che pensa di vedere è il volto della sua gemella morta. »
Nel suo testo “Ostia” lei collega l’evoluzione storica dell’Italia con i suoi ricordi personali associati a quelli di sua sorella. Il motivo?
«È una metafora archeologica: come per la storia di una città che è un accumulo di strati, sedimenti e periodi, la costruzione del soggetto è data anche dall’accumulo di un’intera serie di esperienze vissute, spazi tempi frequentati e percorsi. Il passato di un individuo è come le rovine di una città: frammenti di vestigia di qualcosa che non c’è più. I due fratelli mentre raccontano la storia della città di Ostia, stanno anche cercando di raccontare la propria storia. E in quella ricerca si rendono conto che ci sono aree del passato che sono come lacune: spazi in cui tutto è confuso e nessuno dei due ha la verità, o meglio, ognuno ha la sua verità. Man mano che il brano procede e i due fratelli salgono nel tempo, iniziano a capire che il passato è qualcosa di finalmente aperto come il futuro. Ostia sostiene l’idea che il passato sta per essere costruito, cioè l’idea che il passato sia sempre dopo. Ed è lì, in questo dopo, dove i due fratelli troveranno la loro salvezza. A poco a poco, entrambi capiscono che mentre il passato è un’esperienza vissuta che è stata diluita per sempre, tuttavia, grazie al linguaggio, possono ripresentarlo e ricostruirlo. Ostia è un complimento per il linguaggio come unico modo per recuperare e costruire noi stessi. Se andiamo un po’ oltre, possiamo dire che Ostia sostiene che l’unico tempo reale è la lingua».