BASTA VIOLENZA SULLE DONNE - 25 NOVEMBRE TUTTI I GIORNI

Pertini e Piazza Fontana

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Il 27 dicembre del 1973 sul settimanale “L’Europeo” in una lunga intervista a Sandro Pertini, all’epoca Presidente della Camera, Oriana Fallaci riportò le sue parole sulle ragioni per cui, dopo la strage di Piazza Fontana e la morte di Pinelli, aveva rifiutato la stretta di mano in pubblico al questore di Milano Marcello Guida.

“Lei sa che al presidente della Repubblica, della Camera, del Senato, spetta viaggiare col saloncino, che poi è una vettura speciale attaccata al treno. Sicché vado a Milano e, quando il saloncino è fermo su un binario morto perché sto facendo colazione, il mio segretario dice: «Il questore Guida ha chiesto di ossequiarla, signor presidente». E io rispondo: «Riferisca al questore Guida che il presidente della Camera Sandro Pertini non intende riceverlo». 

Mica perché era stato direttore della colonia di Ventotene, sa? Non fosse stato che per Ventotene, avrei pensato: ormai tu sei questore e voglio dimenticare che hai diretto quella colonia, che vieni dal fascismo, che eri un fascista. Perché su di lui gravava, grava, l’ombra della morte di Pinelli. 

E a me basta che Pinelli sia morto in quel modo misterioso quando Guida era questore di Milano perché mi rifiuti di accettare gli ossequi di Guida. Oriana, io non sono capace di far compromessi!”.

Sandro Pertini, scrisse la Fallaci in quell’editoriale, si ascoltava e non si poteva intervistare. 

In effetti ricordo ancora il timbro della sua voce, quel giorno che venni ricevuta dal “Presidente degli italiani” in un salone del Quirinale accecante di specchi ed oro, bambina orgogliosa di ricevere un premio per aver vinto una ricerca storica sulla Resistenza. 

Mio padre mi aveva già raccontato tanto del coraggio e dell’onestà intellettuale del suo compagno partigiano, ma lì davanti, mentre mi incitava a credere nel supremo valore della dignità umana, io compresi il significato della lealtà ai principi fondamentali dell’uomo.

Con quegli occhi bonari ma sempre attenti, mi disse che la libertà intellettuale era ben più importante di quella personale, e ancora oggi il ricordo della sua indignazione elegante e della sua incontenibile autorevolezza, concentrata in quella corporatura esile, mi dà conforto in un momento storico in cui si ventila che certi valori siano obsoleti e non debbano esistere più. 

Il Presidente Pertini anche con quel rifiuto al questore Guida insegnò che la politica, se non è morale, non va considerata nemmeno politica. 

“La considero una parolaccia che non voglio pronunciare» disse senza mezzi termini, come era aduso a parlare.

Sandro Pertini non aveva mai paura, e non dipendeva dall’età, tantomeno dalla sua carica o dal suo potere, ma dal suo essere e sentirsi libero nella sua legge morale appunto, e sempre coerente ai valori per cui aveva combattuto ed aveva sofferto anni di prigionia. 

Per il Presidente più amato non esisteva dunque una moralità pubblica e una privata. 

La moralità è una sola e vale per tutti i momenti e gli aspetti della vita, anche a costo di soffrire e far soffrire chi ci sta accanto, ricordando il suo ennesimo rifiuto, quello alla richiesta di grazia inoltrata dalla madre mentre lui era in carcere. 

“E chi approfitta della politica per guadagnare poltrone o prebende non è un politico. È un affarista, un disonesto». 

La politica per Pertini era una missione da assolvere nell’interesse del popolo, al servizio di una fede, che aveva deciso di scegliere, “nello stesso spirito dei preti che dicono Sacerdos sum in aeternum” dichiarava ironico. 

Una scelta giovanile che lui avrebbe sempre ripercorso, nonostante la sofferenza e le umiliazioni subite durante la guerra, perché lui non aveva mai dubitato che fosse una scelta giusta. 

Non amava esibirsi e viveva di uno stile riservato, ma empatico, di sicuro mai umile agli occhi degli italiani che infatti lo sentivano sempre vicino, proprio per quelle parole che pronunciava e quegli atteggiamenti così autenticamente umani. 

Quando in occasione dei ricevimenti incontrava “professionisti ricchi”, il presidente Pertini diceva di provar pena per loro, perché avevano conquistato il denaro, il successo ed il potere, ma si notava la loro frustrazione per aver avuto una vita vuota. 

A costo di infrangere i formalismi, Pertini rifiutava di ricevere chi non stimava, e prima del questore Guida in quegli anni erano rimasti in sala di attesa in compagnia del suo segretario, l’ambasciatore greco, l’ambasciatore spagnolo, l’ambasciatore portoghese, persino il presidente del Sud Africa.

Con l’ambasciatore sovietico, dopo la primavera di Praga, aveva persino discusso, contestandogli di ristabilire l’ordine coi carri armati, come “nelle galere e nei cimiteri”. 

Persino con Richard Nixon fu perentorio, quando durante una riunione e rispondendo alla sua usuale espressione “Peace in Security, pace nella sicurezza”  replicò “ No Presidente Nixon: pace e basta”, memore di essersi opposto al Patto Atlantico ed alla guerra in Vietnam.

Oppure quando rifiutò di firmare il telegramma dei presidenti delle assemblee europee alla giunta cilena con le testuali parole di commiato “Vogliate credere ai sentimenti della nostra alta considerazione”. 

Tentarono in tutti i modi di persuaderlo che si trattava di una convenzione in ossequio alla politesse française, ma lui rispose con la consueta fermezza che esisteva anche la politesse italienne, e che non avrebbe mai dato considerazione agli assassini di Allende, disertori del giuramento degli ufficiali d’onore. Il telegramma partì senza quell’inciso finale. 

Perché se una cosa andava contro la sua coscienza, Sandro Pertini diceva no. 

E non rinunciando mai alla sua coerenza, come aveva tuonato davanti al regime cileno per Allende, così fece a Praga commemorando Jan Palach, o per Alessandro Panagulis dopo la sua condanna a morte ad opera dei Colonnelli. 

Il messaggio di Sandro Pertini andava nettamente contro tutti i personalismi ed è oggi più che mai attuale, a sostegno di una parte del Paese che crede e vuole continuare a credere nei valori storici della civiltà italiana, fondata sui principi della Costituzione repubblicana. 

Principi che sorvolano sul terreno del qualunquismo o peggio dell’attrazione superficiale e demagogica verso soluzioni definitive, come l’esercizio di un potere forte: come se gli italiani non avessero già vissuto un potere forte e come se ignorassero a cosa conduce: alle esecuzioni, alle prigionie, al terrore, alla miseria. 

E se il Presidente Pertini era convinto che gli italiani qualunquisti esistessero, riteneva però che fossero verità marginali alle quali non far riferimento, tuffandosi fra la gente e la gioventù. 

I giovani e chi vuole ancora ascoltare, capisce bene l’esortazione sempre moderna del Presidente Pertini: «Non permetteremo la libertà di uccidere la libertà» e la violenza dovrà cedere alla civile, solidale e consapevole convivenza sociale.

I ragazzi che crescono in una società disfattista dei valori, non possono certo diventare uomini liberi e ben formati, pensava infatti il Presidente Pertini, ma non perse mai la convinzione che le generazioni future sarebbero state più capaci di vivere nella libertà.
“La gioventù d’oggi troverà la sua strada. È una gioventù in gamba: non si lasci spaventare dagli scervellati, dagli sciagurati che si abbandonano alla violenza materiale. La gran maggioranza dei giovani, creda, sta dalla parte della libertà. E si comporterà bene. Io lo so! Lo so perché sono un uomo di fede. E un uomo di fede non deve mai disperare. Deve credere sempre nell’avvenire.”

Oggi alle 14.30 il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha parlato al Consiglio comunale di Milano nel 50° anniversario della strage di Piazza Fontana, ed il suo sguardo severo e gentile di chi ha visto il fratello morire fra le sue braccia, ha fatto rivivere di nuovo l’emozione di quando parlava Pertini.

Trasmessa grazie ad un maxischermo nella galleria Vittorio Emanuele, l’immagine del presidente Mattarella ha ipnotizzato la folla, ferma ad ascoltare con attenzione speciale. 

Giurista e docente, con una compostezza di modi così inusuale di questi tempi, Sergio Mattarella conosce bene il peso delle parole quando mette in guardia contro “tentazioni revisioniste” che “alimentano interpretazioni oscure entro le quali si pretende di attingere versioni a uso settario”. 

Ha definito l’attentato del 12 dicembre 1969 che causò 17 morti e 88 feriti  “un attacco forsennato contro la nostra convivenza civile, prima ancora che contro l’ordinamento stesso della Repubblica. 

Uno strappo lacerante recato alla pacifica vita di una comunità e di una Nazione, orgogliose di essersi lasciate alle spalle le mostruosità della guerra, gli orrori del regime fascista, prolungatisi fino alla repubblica di Salò, le difficoltà della ricostruzione morale e materiale del Paese”.

“Non si serve lo Stato se non si serve la Repubblica e, con essa, la democrazia”  ha concluso  il Capo dello Stato. 

Il silenzio surreale in cui tutti si sono fermati a sentire il Presidente della Repubblica interrompendo gli acquisti natalizi ci ha riportati in un attimo al giorno dei funerali di stato delle vittime di Piazza Fontana, quando centinaia di migliaia di persone si riunirono senza bandiere e senza fiori in piazza Duomo, ma si udiva solo il rumore dei passi dei famigliari che facevano ingresso in chiesa seguendo le bare. 

Il lungo applauso che ha salutato il Presidente Mattarella al termine del suo intervento sta a significare che di queste parole oggi gli italiani hanno voglia, prima ancora che bisogno, per continuare a credere nel futuro democratico del Paese, replicando oggi i rifiuti di Sandro Pertini alle strategie dell’odio, della paura, persino quella ben nota della tensione.    

“L’attività depistatoria di una parte di strutture dello Stato è stata doppiamente colpevole. Un cinico disegno, nutrito di collegamenti internazionali a reti eversive, mirante a destabilizzare la giovane democrazia italiana, a vent’anni dall’entrata in vigore della sua Costituzione. Disegno che venne sconfitto”.

Vero è dunque che solo la lealtà incondizionata ai valori costituzionali ed una instancabile  battaglia per i diritti umani possono salvare la democrazia.

E non si tratta di garantire un diritto fondamentale fra gli altri, né di reclamare una super-norma: la dignità umana integra i principi fondamentali già consolidati nel tempo, il cosiddetto jus gentium  che si esprime nella libertà, nell’ eguaglianza e nella solidarietà fra gli esseri umani, con cui fa corpo indivisibile. 

Esattamente i valori ai quali Sandro Pertini quarant’anni fa e Sergio Mattarella ancora oggi incitano a voler custodire.    


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