Omicidio Khashoggi, (in)giustizia è fatta

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L’Agenzia di stampa saudita ha reso noto il verdetto emesso dal Tribunale penale di Riad sull’omicidio di Jamal Khashoggi: dei 31 indagati, 11 sono andati a processo, cinque sono stati condannati a morte e tre a pena detentiva.

Premessa la contrarietà alla pena di morte, sempre e comunque, l’aspetto più importante del verdetto è l’assoluzione di Saud al-Qahtani, uno dei più alti consiglieri del regno saudita, e di Mohammed al-Otaibi, console generale a Istanbul nel periodo in cui Khassoggi entrava nel consolato senza mai più uscirne.

Secondo le organizzazioni per i diritti umani e per la libertà di stampa, questo verdetto costituisce un insabbiamento e non rappresenta alcuna forma di giustizia, né per Jamal Khashoggi né per i suoi cari.

Il processo si è svolto a porte chiuse, senza osservatori indipendenti e senza che trapelasse alcuna informazione sullo svolgimento delle indagini e sulle procedure seguite. Inoltre, la sentenza non fa luce sul coinvolgimento delle autorità saudite in quel crimine devastante né chiarisce dove si trovino i resti di Jamal Khashoggi.

Infine, la coincidenza temporale tra lo svolgimento della Supercoppa Juventus-Lazio e la diffusione del verdetto rischia di far passare un messaggio pericoloso e sbagliato: che assecondando le strategie di marketing dell’uomo forte di Riad, Mohamad bin Salman, si ottengono dei risultati.

Proprio bin Salman era stato chiamato in causa lo scorso giugno da Agnes Callamard, la relatrice speciale delle Nazioni Unite sulle esecuzioni extragiudiziali, sommarie e arbitrarie, la quale aveva concluso che Khashoggi era stato vittima di “un’esecuzione extragiudiziale di cui, secondo il diritto internazionale, lo stato dell’Arabia Saudita porta la responsabilità”.
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