Non ho ancora sentito il suono delle zampogne, ma nelle strade ci sono già da giorni luminarie ed il clima frenetico del periodo natalizio. Il quale, chissà perché, ogni anno inizia un po’ prima di quando è iniziato l’anno precedente.
In mancanza di zampogne e ciaramelle mi canticchio un motivetto che risale agli anni della mia infanzia a Napoli. Era cantato, “a fronn’e limone” (a foglia di limone) cioè con un po’ di stizza da una domestica di mia nonna: <mo’ vene Natale, nun tengo denare, me ’nfil’ o cappotto e me vaco a cuccà>. Che significa che Natale si avvicina, ma chi canta – e lo fa con stizza – non ha soldi, ed è tanto povero e rassegnato che non sa, non può fare altro che andarsi a coricare infilandosi il cappotto, non avendo di meglio per ripararsi dal freddo. Natale, si sa, viene d’inverno e fuori fa freddo.
E’ un motivetto triste e rassegnato quello che mi torna alla mente, dunque. Contrasta con le luminarie, le vetrine fosforescenti e la frenesia degli acquisti. Ma non con le notizie che circolano in questi giorni: di tagli di 10.000 posti di lavoro all’Unicredit, per consentire di “fare” 5 miliardi di utili da distribuire agli azionisti; di altri 4.500 posti di lavoro che vanno tagliati all’Ilva di Taranto, per evitare di “fare” alcuni miliardi di perdite; ancora di un imprecisato numero di posti di lavoro – ma di sicuro non poche migliaia – che stanno saltando nelle oltre 130 aziende dichiarate in crisi, di cui si occupano gli altrettanti TAVOLI aperti al Ministero dello Sviluppo.
Sviluppo: parola che La Touche già vent’anni fa inserì fra quelle velenose, da cui ci mise in guardia, insieme a crescita. Propose di cambiar strada, cioè modello economico. Ma lo si sta ancora sbeffeggiando .
Così siamo in una situazione paradossale: non c’è, almeno pare, chi possa imporre ad Unicredit di “fare” un po’ meno utili per gli azionisti ma di non “fare” 10.000 disoccupati in più, e però si cerca di imporre agli azionisti che hanno preso in fitto gli stabilimenti dell’Ilva di non eliminare 4.500 posti di lavoro ma di “fare” qualche miliardo di perdite.
In nessun caso, è chiaro, né per produrre utili, né per evitare perdite, dovrebbe essere ammesso di “fare” disoccupati. Se in ambedue i casi la ricetta è la stessa vuol dire che il modello non funziona, che aveva ragione La Touche, che bisogna cambiare strada.
E invece no, si persevera in questa strada senza sbocco, quella dello sviluppo ovvero della crescita. Tutti l’agognano, la invocano, l’auspicano e nessuno esplora orizzonti diversi. Sono anni, anzi decenni, che c’è chi avverte che la crescita all’infinito non è possibile, ma si persevera nell’inseguirla.
Sembriamo una falena impazzita che gira, rigira ancora e svolazza intorno ad una lampadina illuminata. Per più tempo resta accesa, più la lampadina si surriscalda e diviene rischioso avvicinarsi; ma la falena non lo sa, continua a svolazzarle intorno con giri sempre più stretti fino a che sbatacchia contro la lampadina, una, due volte e, bruciate le ali, cade giù e muore. L’attrazione della luce le è stata fatale. Non ha percepito il rischio incombente.
Così il profitto, il fascino del profitto non fa vedere a tanti, a troppi che il sistema sta arrancando. Taglia oggi e taglia domani posti di lavoro, a furia di tagliare si taglia anche il numero di chi ha soldi per comprare. Si riduce cioè il Mercato. Ma niente paura, l’inventiva umana provvede. C’è chi sta pensando che invece di pagare i lavoratori perché producano, si possono pagare i consumatori, perché comprino. Si sta pensando di dare un po’ di soldi a chi acquista, in modo che non si blocchi la produzione per mancanza di sbocchi. Ma non illudiamoci, non si tratterebbe di una non dico equa ma almeno equilibrata distribuzione della ricchezza prodotta rimpiazzando il lavoro umano con tecnologie avanzate, ma solo di assicurare il livello ed il tipo di consumi che occorrono perché il sistema produttivo non si inceppi e continui a “fare“ profitti.
Non è una novità assoluta. E’ già da molto tempo che quello che si chiamava il “comando del capitale” ha investito non più solo i lavoratori, ma anche i consumatori. Quando ha cominciato a impiegare meno lavoratori per produrre ha iniziato ad occuparsi maggiormente dell’area del consumo. Ha moltiplicando con i mezzi più disparati gli stimoli ad acquistare: sono state inventate le feste della mamma, del papà, dei nonni, di halloween, l’usa e getta, il black Friday, la pubblicità subliminale e tante altre diavolerie per trasformare giovani ed adulti/e, persino vecchi e vecchie, dotati di un minimo potere di acquisto, in falene che roteano nei centri e nelle strade commerciali, impazzite a causa di una compulsiva spinta ad acquistare. Specialmente nelle feste natalizie che segnano il trionfo del consumismo.
Eppure a Natale non dovrebbe essere così. Il Natale dovrebbe essere una festa sobria, perché richiama un evento storico che ha dato un’impronta alla Storia: la nascita di un bambino che da adulto ha portato e praticato l’annuncio rivoluzionario del riscatto degli esclusi e dei poveri per realizzare l’eguaglianza di tutti gli esseri umani e garantire a tutti e tutte loro la libertà. Tanto rivoluzionario che lo misero a morte.
Per decenza, in un periodo in cui i poveri e gli esclusi aumentano, si dovrebbe rifuggire dal tripudio degli acquisti; occorrerebbe anzi lanciare una campagna per frenare gli acquisti e sconfiggere il consumismo al fine di ridurre l’offesa a quanti non avendo da festeggiare e nemmeno a sufficienza di che coprirsi non possono che coricarsi indossando il cappotto. Ma se si lanciasse una campagna del genere ed avesse successo, se i consumi calassero molto, vi sarebbero altri tagli di posti di lavoro, disoccupazione e povertà aumenterebbero ancora di più e l’offesa ai poveri sarebbe maggiore.
Ed allora compriamo, acquistiamo , facciamo regali, facciamoci regali, scambiamoceli, noi che possiamo, dicendoci buon Natale.
Ma è questo il Natale? No! E’ il segno che il sistema è giunto al capolinea. Cha la falena si sta bruciando le ali
Signore e signori dunque si scende, si cambia carrozza, si deve andare su di un altro binario!
Nino Lisi