All’inizio del “Libro dei Sogni’ di Fellini c’è un disegno noto come ‘il sogno dell’aeroporto’, presente con qualche variante non marginale tra i bozzetti sparsi e inediti. Nella vignetta Fellini ‘vede’ se stesso nelle vesti di direttore dello scalo, alle prese con un personaggio orientale il quale, muto e quasi minaccioso, pretende da lui il visto di ingresso. Seduta direttamente sulla scrivania, di schiena, c’è una poderosa donna nuda: le sue chiappe sono prorompenti e indossa soltanto una cintura in vita, abbigliata quindi come una femmina-gladiatore, una lottatrice.
Recita la didascalia:
“Davanti a me c’è un viaggiatore dall’aspetto misterioso, di razza sconosciuta, che mi incute soggezione timore e ribrezzo insieme. (…) «Io non sono il vero direttore dell’aeroporto – dicevo arrossendo. – Non ho l’autorità di farla entrare…» Ma sapevo che non ero completamente sincero, e avevo vergogna per questa viltà…”
Le fattezze della donna sono inconfondibilmente della Lea di San Marino. Per quale ragione la signora compare nel sogno e in quella particolare posizione dominante nei confronti del sognatore, che è rappresentato decisamente minuscolo nonostante l’altezzoso berretto da capo scalo e la scritta esplicita ‘director’ nella targhetta sulla scrivania?
Va notato che il sostantivo ‘director’ in lingua inglese significa precisamente ‘regista’. Ed è il regista-direttore dell’aeroporto a dover decidere se far entrare o no il passeggero orientale, immobile, massiccio e ostinato, che gli sta di fronte.
Ernst Bernhard, ascoltando il sogno del cinese, aveva azzardato la sua decisa interpretazione: “Il giorno in cui lei realizzerà questa figura che le stava dinnanzi, sarà un giorno straordinario.”
Federico, come si è detto, aveva incontrato l’irresistibile Lea alla fine della lavorazione della Strada, indicativamente cinque o sei anni prima, quando temeva di essere sul punto di sprofondare in una pericolosa depressione. La Lea incarnava una femminilità sovrastante che nel sogno riduce alle minime proporzioni, e in uno stato di evidente soggezione, il comandante (“director”) dell’aeroporto.
Federico nella vita reale, al cospetto di una energia erotica così spropositata, si sentiva in una posizione di inferiorità. Il sentimento è espresso nel sogno tramite la presenza sovradimensionata della donna, una gigantessa, all’evidenza impossibile da soddisfare; e accanto uno straniero ignoto che pretende da lui una decisione impellente: essere accolto, riconosciuto, certificato.
Il ‘sogno del cinese’ reca la data 27 dicembre 1960, periodo di fine anno, e risale appunto ai primi tempi della relazione con lo psicanalista tedesco. Figurerebbe tra le pagine iniziali del diario onirico se non fosse stato strappato in seguito dall’autore e affidato all’amico Rinaldo Geleng. In ogni caso si ricollega ad altri sogni di quegli stessi giorni che ci aiutano a illuminarne il contenuto.
La stessa notte in cui ‘incontra’ il misterioso cinese, Fellini sogna anche di trovarsi a Villa Borghese in attesa di Delia Scala (una appetitosa soubrette di quegli anni), “circondato dalle tenebre, da ruffiani e da puttane”. Si accorge si essere nudo, bianco e magro. “Frociaccio!! – mi urlano dietro sghignazzando. – Rottinculo! – E a me sembra che abbiano ragione.”
Il primo giorno del nuovo anno (1961) il sogno colloca Federico a Via della Mercede (già indirizzo di un noto casino n.d.r.), piove e “un’antica gloriosa troiona avanza verso di me sotto l’ombrellino; la bella ruffiana è amica della L(ea) e della Paciocca, quanto l’ho desiderata quella potente mignottona! (in realtà non è mai esistita).”
Federico cerca di richiamare l’attenzione con dei fischi e continua: “Ma l’altra bellona che spunta laggiù sulla piazza non è forse L(ea) stessa? Oppure un’altra donna ma ancora più bella e desiderabile?” Poi il protagonista va a letto con la vecchia ruffianona, che gli fa anche un po’ schifo; ma “non è possibile resisterle, la sua ciccia dà pace e sonno.” Dell’altra figura femminile denominata Paciocca, abbiamo parlato ampiamente.
Il 5 dicembre Federico sogna di leggere su Lo Specchio (periodico scandalistico dell’epoca): “…Fellini decide finalmente di abbandonare sua moglie.” La lettura di questa notizia, commenta il regista, “mi carica d’odio verso il giornale e di pena (ma non più così straziante come sarebbe accaduto tempo fa) per Giulietta e per me.”
In un sogno precedente infatti, Federico perde Giulietta in stazione. Si attarda a comprare le sigarette mentre il treno parte portandosela via: “Sono strozzato dall’angoscia, Giulietta è sola sul quel treno, come raggiungerla? (…) Chissà dove e quando la rivedrò.”
Il 20 gennaio (giorno del suo compleanno!) sogna invece che “Giulietta sta morendo” E’ un sogno importantissimo nella minuziosa descrizione e nel finale, in cui il regista invocando la moglie – “Giulietta, adorata Giulietta, non morire, non mi lasciare” – ammette che nell’atto di scrivere queste note sul librone, non riesce a trattenere le lacrime.
A febbraio ricompare la Lea, questa volta a Rimini, nel quartiere San Giuliano:
“…la culona notturna in posa discinta è la L.” Intorno si sono due paesani che ridacchiano e dicono: “La L. con dieci lire la si può chiavare quanto si vuole.” E a quelle affermazioni, annota Fellini, “si sentiva il ridacchiare torbido lupesco della bella troiona.”
Circa un mese dopo la Lea riappare oniricamente a Roma e per l’esattezza al santuario del Divino Amore, in una valletta in cui avvenivano gli incontri clandestini e le furibonde liti in macchina della coppia. Al posto dell’auto c’è un aereo, e insieme a lui c’è Giulietta. La Lea compare “con cinque, sei figli portati per mano”, Federico cerca di non farsi vedere ma poi esce dalla macchina e si defila sulla soglia di un’osteria a spiarla mentre avanza “con la sua figliolanza composta e graziosissima.”
L’irresistibile Lea. Non si erano più rivisti, eppure a distanza di anni la sua figura continua a incrociare i sogni più sibillini, ma anche più rivelatori, del regista. Fellini mi accennò che a causa di sopraggiunte turbe mentali, al termine della vita la signora era stata ricoverata nel manicomio circondariale di Imola; ma l’informazione non viene suffragata dai parenti. Sembra che non corrisponda a verità.
Sono entrato in contatto per la prima volta con il Libro dei Sogni durante quel periodo travagliato e fertile di Federico, tra il 1974 e il 1976, coincidente con la progettazione e la preparazione del Casanova. Un giorno in cui eravamo soli nel suo studio, Fellini trasse dal cassetto della scrivania un grosso volume rilegato, lo aprì su una pagina bianca e, per nulla disturbato dalla mia presenza, cominciò a tracciare figure cambiando penne e matite come un pittore i pennelli sulla tavolozza. Appresi così che il regista annotava con una certa regolarità le sue immersioni notturne nel pozzo dell’inconscio. Mi metteva a parte di un’operazione riservata, che non mancherà in seguito di ripetere davanti a me, seduto dall’altra parte della scrivania. In qualche occasione, quando aveva voglia di parlarne (per via di un’anticipazione, il pretesto per un ricordo, la traccia di un racconto) mi mostrava ciò che aveva disegnato o che stava completando con le annotazioni di rito. Era il sogno in sé ad entusiasmarlo, quella visione affiorata dal buio, che metteva in scena materiali ripescati nel magazzino onirico; storielle spesso bizzarre, o incongrue al primo sguardo, ma al contrario gravide di messaggi non ignorabili perché ineluttabilmente sinceri.
“La cosa straordinaria è che l’inconscio non mente mai. – Ripeteva. – Ciò che ti sforzi di dire a te stesso in quel linguaggio simbolico è la pura verità, ti appartiene profondamente. Non ci sono censure, o accomodamenti, come succede nella vita diurna. Non ci sono imbrogli più o meno scoperti per far tornare i conti. Il sogno è sempre chiarissimo se riesci a entrare nella sua logica e adottarne il codice espressivo.”
E così, senza parere, senza una scoperta volontà di indottrinarmi, mi schiudeva un territorio per me a quel tempo in gran parte sconosciuto: la galassia dell’irrazionale, al cui interno si esprimeva anche l’arte, linguaggio simbolico per eccellenza. Sul medesimo piano delle creature di un mondo magico con cui Federico intratteneva contatti nutrienti: maghi, ermeneuti, veggenti, illusionisti, e altri personaggi dotati di facoltà paranormali, capaci di azioni che sconfinavano nel miracolo.
Di Padre Pio portava l’immagine nel portafoglio. Più volte mi raccontò di averlo incontrato percependone quel misterioso sentore di rose e violette che si dice emanasse dal santo frate in particolari momenti di grazia. Istintivamente credente, e allo stesso tempo irriverente com’era, amava anche giocare sul fenomeno extrasensoriale e attribuirsi quell’effetto olfattivo: “Se sentite un profumo – diceva – non fateci caso, verso le sei, sei e mezza mi capita, come a Padre Pio.”
Debbo ammetterlo, l’odore che aleggiava nella stanza del suo studio, vagamente speziato e così preciso, non ho mai capito da dove provenisse. Mi parve persino di percepirlo, in chiesa, nella Basilica di Santa Maria degli Angeli e dei Martiri, durante la cerimonia del suo funerale. Ma era sicuramente frutto di suggestione.
Nel tempo ho visto crescere il libro dei sogni, anzi raddoppiare in un secondo tomo, di dimensioni maggiori, fatto rilegare dal segretario di Fellini, Enzo Di Castro, in una cartoleria di Piazza Fiume non distante dall’ufficio di Corso d’Italia. Federico aveva trasferito il suo studio al primo piano di un maestoso edificio umbertino, in un appartamento più vasto di quello di via Sistina, quasi una sede di rappresentanza. L’odore però, perlomeno nel suo ufficio, rimaneva il medesimo, inconfondibile alle mie narici.
A volte arrivando, specialmente di mattina, trovavo Federico seduto alla scrivania a disegnare, ancora con il cappotto addosso, la sciarpa, e perfino il cappello in testa; succedeva quando l’urgenza di non lasciar svanire l’emozione della notte lo induceva a trasferire al più presto in figure il messaggio da cui era stato visitato. Prendeva i pennarelli sistemati in bell’ordine davanti a sé sul ripiano lucido dello scrittoio, e iniziava a tracciare i personaggi con estrema rapidità, muovendo le dita con scioltezza e perizia. Di rado partiva da un titolo, le descrizioni venivano dopo, come anche i dialoghi dentro i balloon dei fumetti. Nel primo contatto con il foglio bianco prevaleva il disegno, l’impianto della scena in cui si inserivano i personaggi del sogno. Seguivano le ombreggiature, le rifiniture esattissime, con autentico sguardo da pittore.
Se si esamina il bozzetto del 3 marzo ’75, dove Giulietta accarezza le grandi tette nude di Anna (Giovannini), è facile notare che in una composizione totalmente in bianco e nero l’unica macchia di colore, vivissimo, è il rivestimento del divano, definito nei minimi particolari. Quello è il fulcro. Il Libro dei Sogni è infatti anche una effemeride, un libro mastro, un quaderno illustrato sulla falsariga delle pagine del vecchio Corriere dei Piccoli con le didascalie in rima sotto le vignette. Con tale spirito chiede di essere sfogliato, goduto al pari di un album di avventure da seguire col fiato sospeso fino alla conclusione della puntata. Ma anche con il trepidante batticuore per tutte quelle donne spogliate, curvilinee, opulente, sfidanti, ricolme di lusinghe e di promesse! E di corrusche di minacce.
Giulietta Masina appare nel libro come una perenne ragazzina, formosetta, con i capelli biondi un po’ boccoluti, la mogliettina di Cico e Pallina delle recite alla radio. Il personaggio ricorre assai spesso nei sogni di Federico, una specie di folletto che osserva e commenta, ma non giudica. E’ ritratta immutabile nel tempo, come Campanellino di Peter Pan. Giulietta è ‘dentro’ Federico, mentre fuori c’è il mondo con tutto il caotico, mutevole scenario dell’esistenza umana, che non può essere né bloccato, né compresso, né ridotto a un’unica forma. Tantomeno cancellato.
Giulietta semplicemente assiste allo spettacolo, ma essendone allo stesso tempo al centro, quale protagonista occulta e indispensabile magico filtro. Con amarezza? Anche. Con sofferenza? Anche. Come è giusto che sia.
Giulietta è La Dolce Vita, è Otto e Mezzo, è Giulietta degli Spiriti: il presupposto dell’assoluta sincerità e anche della sconcertante libertà con cui Fellini ha raccontato sé stesso, fino alla Città delle Donne, e a La Voce della Luna.
Esiste forse un’unica possibilità da parte di chicchessia di incatenare i sogni, di arginare l’inconscio?
Federico disegnava tette e culi in quantità, arricchiti di ogni variante di genere sessuale. Per chi non lo conosceva personalmente aprire il libro dei sogni e precipitare nel gorgo del suo immaginario, del suo inconscio, poteva, può ancora oggi, risultare una specie di shock, come scivolare e perdersi dentro una spirale risucchiante. Forme femminili di proporzioni rubensiane, figure sfacciate, ipnotizzanti situazioni erotiche riferite con fantasiosi dettagli.
Fellini aveva davvero intenzione di consegnare alle stampe uno zibaldone così privato?
Un autore visivo come Federico ha sempre dato voce e immagine a quel giacimento dell’oscurità in cui ogni essere umano si aggira di notte, e non di rado indugia in segreto anche di giorno, a occhi semi aperti; ma che non osa richiamare apertamente in superficie, avverso a esibire in pubblico i propri fantasmi. Per semplice mancanza di strumenti idonei, o di talento, ma soprattutto per timore di compromettere la propria rispettabilità, di incrinare agli occhi del mondo l’immagine virtuosa che tanto lo rassicura.
Non è per questa ragione che esistono gli artisti, chiamati a sognare per tutti noi? Non sono le loro opere uno specchio in cui l’umanità può riconoscersi senza vergogna?