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La discarica dei veleni può “salvare” Roma dal caos. Inquina già le falde ma non importa. I segreti di Montello

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E’ una delle più grandi discariche italiane: da 15 anni inquina le falde acquifere, sorge  in parte su aree confiscate, è stata chiusa perché gli invasi erano saturi e non esiste la certezza che gli spazi utilizzati siano stati bonificati come prescritto. Eppure si sta valutando la domanda di ampliamento dei siti e dunque la riapertura dei cancelli, poiché di qui a breve potrebbe essere questo, l’immenso buco nero di Borgo Montello a Latina, lo spazio necessario alla città di Roma per evitare il caos.  Fino ad oggi  in quella collina di cinquanta ettari sono stati sversati sei milioni di tonnellate di rifiuti solidi urbani ma a riproporla come soluzione ottimale è uno dei gestori degli invasi, la società Ecoambiente, che  ha chiesto alla Regione Lazio un ampliamento dell’invaso per ulteriori 38mila metri cubi. La procedura è in fase istruttoria, come condizione alla valutazione dell’ampliamento (e riapertura) l’Arpa Lazio, con Regione, Provincia di Latina e Comune di Latina, hanno chiesto la bonifica del contestatissimo S0, il sito che desta maggiori preoccupazioni e dove si è già ipotizzato che il clan dei casalesi avesse seppellito centinaia di fusti . Ecoambiente è una società che ha operato e tuttora opera su un’area in parte confiscata, con  misura applicata dal Tribunale di Roma ai beni dell’imprenditore  Giovanni De Pierro. Ciò che stupisce è che tutto questo sia cominciato quando Ecoambiente era una società in parte controllata dal pubblico, poiché la proprietà era detenuta, pro quota, dalla Latina Ambiente, la quale era a sua volta partecipata a maggioranza dal Comune di Latina, dichiarata fallita dal Tribunale di Latina due anni fa. La curatela di Latina ambiente spa  ha venduto la proprietà pubblica di Ecoambiente ad una società della galassia Cerroni che ora controlla l’intero pacchetto. La storia travagliata e molto sospetta della discarica è stata meticolosamente ricostruita dalla Commissione parlamentare sul ciclo illegale dei rifiuti che a dicembre 2017 ha depositato una relazione conclusiva che farebbe tremare i polsi a chiunque. Tranne a coloro che, ad ogni costo, vogliono continuare a lavorare su quell’area delimitata praticamente alla nascita sulla base di un fortissimo interesse della criminalità organizzata, per quanto l’unico tentativo di indagare su questo fronte sia miseramente naufragato.

Gli elementi certi restano molti e sono tali da restituire una fotografia assai precisa di cosa si vuole riaprire adesso a Latina e quanto si rischia in termini ambientali.

Dalle indagini della Commissione risulta che nell’area di Borgo Montello “sono stati stoccati – extra ordinem  e in alcuni casi illegalmente – rifiuti speciali pericolosi. Tra la fine degli anni 80 e i primi anni 90… vi è stato un conferimento di rifiuti pericolosi di origine industriale nell’area denominata 2B, generando un caso molto grave di inquinamento poiché la zona dello sversamento era stata già definita, all’epoca, come non idonea dal punto di vista geologico per la realizzazione di una discarica per rifiuti pericolosi”. Questo è scritto nella relazione parlamentare.

Ciò nonostante lo stoccaggio ci fu e non risulta che quei rifiuti pericolosi siano mai stati trasferiti altrove  né che ci sia stata una bonifica. Furono sversati nel primo strato dell’invaso B2, all’epoca dei fatti gestito da Ecotecna e oggi passato ad Indeco, la seconda società (oltre ad Ecoambiente) che opera sulla discarica di Borgo Montello.

Cosa accadde veramente in quella periferia di Latina a cavallo tra gli anni 80 e 90? Secondo un testimone diretto, ascoltato dalla Commissione parlamentare e prima anche dalla squadra mobile del capoluogo pontino, “durante il periodo di gestione della Pro-Chi arrivavano in media tra i 300 e i 400 fusti al mese”. E’ possibile dunque che lì sotto ci siano migliaia di fusti di rifiuti industriali che nessuno finora ha ancora cercato. La stessa area nel 2000 è passata sotto l’egida di Ecoambiente che in quel momento era già indirettamente del Comune di Latina, dunque quest’ultimo, se non c’è stata bonifica (e non risulta), ha inquinato contro se stesso.  O meglio: Ecoambiente  presentò un progetto di  messa in sicurezza, ritenuto non sufficiente dai periti del Tribunale di Latina, il quale, infatti, ha avviato il processo per inquinamento a carico degli amministratori della società. Un procedimento infinito, rinviato innumerevoli volte, destinato alla prescrizione. La prossima udienza è fissata per marzo 2020.

Un immenso  sito “produttivo” come quello di Montello non poteva sfuggire al clan dei casalesi, esperto in rifiuti e dominante in provincia di Latina. Una serie di elementi  convergenti fanno supporre che l’organizzazione casertana si interessò quasi da subito a quel sito, considerazione cui si aggiungono le rivelazioni fatte dal collaboratore Carmine Schiavone sin dal 1996, ma tenute praticamente sotto chiave fino al 2009. Dal 1989, intanto, Michele Coppola, un agricoltore considerato vicino alla fazione di Zagaria, si trasferisce da Caserta a Borgo Montello perché compra dei terreni a ridosso della discarica. Ecco cosa dice Carmine Schiavone alla polizia giudiziaria il 13 marzo del 1996: “…il clan dei casalesi da moltissimi anni ha avviato nella provincia di Latina un’opera di infiltrazione e di investimento… a capo dell’organizzazione in terra pontina c’era Antonio Salzillo, alias ‘Capacchione’, nipote di Ernesto ed Antonio Bardellino…. Salzillo, capozona di Latina ha subito trovato come attività di copertura la società dei fratelli Diana, che avevano una concessionaria di veicoli industriali Scania, con sede a Borgo San Michele. I due fratelli, Costantino e Armando Diana, sin dalla data del loro trasferimento a Latina erano, secondo Schiavone ‘espressione diretta del gruppo dei casalesi in terra pontina’”. I Diana avevano anche partecipato , dai primi anni 80, alla costruzione della terza corsia dell’autostrada A1. Salzillo in provincia di Latina gestiva un gruppo di trenta persone, secondo il collaboratore di giustizia, e ciò gli fruttava cento milioni di lire al mese che venivano versati direttamente da Carmine Schiavone per conto del clan a beneficio del  Salzillo.

Queste affermazioni erano note agli organi inquirenti da marzo del 1996, eppure emergeranno solo poco prima della sentenza definitiva di “Anni 90”, il processo alla cellula pontina dei casalesi, a giugno del 2009. Due mesi prima, ossia ad aprile 2009, viene ucciso in un agguato a Cancello Arnone in provincia di Caserta, uno dei pochi custodi delle verità sui rifiuti a Montello, ossia proprio quell’Antonio Salzillo, citato da Carmine Schiavone nelle deposizioni del 1996. E così un possibile testimone venne a mancare e mai più ci sarà.  (1/continua)


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