Gli improperi urlati da un uomo in canottiera alla consorte all’inizio dello spettacolo rimbombano a lungo, moltiplicati dall’insistente e ripetitivo ritmo sincopato che fa da colonna sonora all’opera “antiperbenista” di Simenon, incursione fra le piccinerie dell’animo umano prossima, per l’analisi impietosa, alle indagini del suo Maigret.
La scena è scabra: un salotto buio e disadorno, che richiama piuttosto un antro oscuro, uno scantinato in cui nascondere ciò che non si vuole ci rappresenti all’esterno ma che fatichiamo a buttare via. Qui si muovono un uomo scapigliato e una donna altezzosa, entrambi reduci da un lungo periodo di vedovanza. I due decidono di sposarsi dopo un incontro fortuito, che fa sorgere in entrambi il desiderio di non trascorrere più tutto il tempo da soli.
Il marito che urla, Emile, ha in mano un mucchio informe di pelo, il cadavere del suo amico Giuseppe, il gatto che gli aveva riempito le tante giornate trascorse in solitudine dopo la morte della prima e solare compagna. Marguerite, la seconda moglie, appare invece fredda e formalmente ineccepibile, mentre lo osserva dall’alto delle scale che portano verso le camere. Emile la accusa di avergli avvelenato il gatto e per vendicarsi strangola l’animale da compagnia di Marguerite, un pappagallo colorato che le ravvivava l’esistenza. Da allora, i due non si parlano più e approfittano della loro convivenza per farsi dispetti e ripicche, comunicando solo tramite bigliettini perfidi rivolti l’uno all’altra e viceversa.
Facendo ricorso a flashback che si poggiano esclusivamente sulla bravura degli attori nel cambiare registro pur continuando a incarnare gli stessi personaggi – più giovani però -, la regia ci mostra in nuce le differenze, di ceto e di atteggiamento, che risulteranno poi deleterie per la convivenza: Marguerite mal sopporta l’indole libera (anche sessualmente) e svincolata dalle convenzioni sociali di Emile, rappresentata dal gatto randagio che lui si porterà in casa dopo il matrimonio; e Emile dal canto suo non dà alcuna importanza alle apparenze tanto irrinunciabili per la nuova moglie borghese, simboleggiate dal pappagallo multicolore ma imprigionato in una gabbia. Come il volatile, suo alter ego, Marguerite si rinchiude in comportamenti rigidi e conformismi sociali che le impediscono di entrare in contatto con la dimensione della passione e dell’autenticità. Esemplare e disorientante la scena del primo approccio intimo tra i due coniugi, che fa apparire lui come in preda a istinti animali e lei come costretta a sopportarli ma senza alcuna partecipazione e anzi con altezzoso distacco.
Alvia Reale è caustica e impeccabile nell’interpretazione di Marguerite, così come disinvolta e leggiadra nei panni della prima moglie di Emile, che le è diametralmente opposta come temperamento.
Un nuovo scossone alla coppia viene inferto dall’arrivo di una vicina bigotta che si mette a pregare con Marguerite. Così Emile, esasperato, se ne va di casa e pensa di recuperare la sua autenticità perduta. Nel frattempo Marguerite si accorge di quanto il marito tanto odiato le sia in realtà indispensabile nei fragili equilibri della quotidianità, anche solo per continuare a definirsi per contrapposizione a lui, fino al punto di prenderne il posto e i vizi a tavola. Per sopperire alla sua assenza, si mette addirittura a sorbire rumorosamente la zuppa, abitudine che trovava volgare e irritante nel marito, si siede sulla poltrona di lui in salotto e scaccia l’amica in malo modo. Non ne scaturisce però una maggior capacità di empatizzare con il suo convivente, anzi, tutt’altro: sancisce per un’ultima volta che l’incomprensione è totale ma che il gioco di ruoli, pur se conflittuale, le è vitale per mantenere lo status di moglie. Anche Emile non trova quello che cercava nella sua fuga da casa e torna a casa con la coda tra le gambe, rassegnandosi alla noia del solito copione, perché in fondo in questo modo può perpetuare le sue sicurezze, senza le difficoltà del mettersi di nuovo in gioco da zero.
I bigliettini feroci, scagliati per terra o abbandonati sul tavolo, in fondo non così diversi dagli odierni post aggressivi sui social, ribadiscono narcisisticamente l’identità di chi li scrive e rispondono al bisogno così primordiale di essere in comunicazione con gli altri, anche se non assolvono lo scopo di creare davvero condivisione e vicinanza. Con il gatto, invece, era tutto più autentico.
TEATRO FRANCO PARENTI
19 Novembre – 1 Dicembre 2019
IL GATTO
dall’omonimo romanzo di Georges Simenon
con Alvia Reale, Elia Schiltone Silvia Maino
adattamento teatrale di Fabio Bussotti
regia Roberto Valerio
produzione Compagnia Orsini
scene Francesco Ghisu
costumi Francesca Novati
luci Carlo Pediani
suono Alessandro Saviozzi