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Gran Bretagna. La destra ha stravinto, la sinistra ha straperso

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Considerazioni sulla sconfitta del Labour e la lezione per la sinistra europea

Di Pino Salerno

Il Partito laburista britannico ha conseguito il peggior risultato elettorale del dopoguerra, nelle elezioni legislative del 12 dicembre, una data amara che passerà alla storia, non solo per il Regno Unito, ma anche per l’intero assetto dell’Europa. Le urne sono state impietose: Boris Johnson, premier tory uscente e tenace assertore della Brexit, ha guadagnato la maggioranza assoluta con un numero schiacciante di seggi, 364 su 650 (+66 sulle scorse elezioni), mentre il Labour ne ha ottenuti appena 203 perdendone 42, e toccando il minimo storico a Westminster. Ne esce vincitore anche Donald Trump, che ha tutto da guadagnare non solo dalla evidentemente prossima rottura dell’Unione europea, ma anche per la costruzione di quella “sfera anglofona” neoimperialista che nelle intenzioni dovrebbe tornare a dominare il pianeta. Una sciagura doppia, insomma. Il risveglio dei laburisti, dei socialisti europei, e di tutti gli europeisti convinti non poteva che essere peggiore. Ed è quest’alba funesta del 13 dicembre che tuttavia dovrebbe partire una rigorosa analisi sulla sconfitta. Se non si sa perché si è stati sconfitti, difficile sapere come tornare a vincere. Una regola che dovrebbe valere per tutte le forze politiche di sinistra. Cominciamo da qui, dunque, cercando di capire com’è stata possibile una sconfitta di tale entità per i laburisti britannici. Abbiamo scelto 5 punti critici.

Jeremy Corbyn

Il leader laburista rappresentava e ancora rappresenta un modello di riferimento per il socialismo del XXI secolo, non solo in Gran Bretagna ma per l’Europa intera. Gli va riconosciuto lo sforzo di portare il messaggio di politiche “per molti, non per pochi” e gli va reso l’onore delle armi per la sconfitta nelle urne. Gli va riconosciuto, in piena crisi economica, il tentativo di ricostruire un universalismo del welfare proprio a partire da un nuovo intervento pubblico nella sanità e nell’istruzione. Così come gli va riconosciuto il merito di aver portato alle urne la speranza di milioni di giovani britannici. Ma purtroppo, come si dice, la vittoria ha tanti padri, la sconfitta ne ha uno solo. E su Corbyn in queste ore si sta scatenando la valanga di insulti e di messaggi ingrati a sinistra e da sinistra, nel Regno Unito e altrove, come se la ragione della sconfitta fosse proprio quel messaggio radicale, quel monito di occuparsi degli ultimi, quella lotta senza esclusione di colpi per l’uguaglianza sostanziale. Corbyn è un vero socialista, questo è il punto, e in tanti avevano creduto in lui, anche coloro che oggi, anche in Italia, lo dileggiano per un programma politico “troppo radicale”. E Corbyn ha anche una storia politica, che lo ha portato a sostenere il movimento repubblicano irlandese e alcune posizioni giudicate antisemite ma che erano solo rivolte all’attuale governo di Israele di Netanyahu. E poi ci sono i blairiani di ritorno, che aspettavano il momento della rivincita, come Toby Perkins, il candidato al seggio di Chesterfield, che ha stigmatizzato, dopo la sconfitta, “la monumentale impopolarità di Corbyn”. In ogni caso, Corbyn ha già annunciato le sue dimissioni da leader del Labour, assumendo su di sé la responsabilità della sconfitta.

Il Manifesto

La campagna elettorale di Corbyn è stata caratterizzata dalla elaborazione di un Manifesto poderoso, un vero e proprio programma politico per I prossimi dieci anni, dal titolo “It’s Time for Real Change”. Dall’assistenza sanitaria gratuita per gli anziani, dall’università gratuita per tutti, all’abbassamento a 16 anni del diritto di voto: il partito ha cercato di parlare a tutti i settori della società. Un programma dallo spiccato segno del socialismo, dell’intervento pubblico, anche a costo di effettuare nazionalizzazioni di asset strategici. Un Manifesto, che sempre dopo la sconfitta, ora viene denegato e rigettato da alcuni candidati, che affermano: “Non è che alla gente non piacessero le nostre politiche, è che pensava che ci fossero troppe cose per loro”. Perfino gli originali “creatori” della campagna elettorale di Corbyn, i comunicatori di Momentum, ora, dopo la sconfitta, si accorgono che il Manifesto era “troppo dettagliato e troppo lungo. Era un programma decennale non per un governo”.

La strategia sulla Brexit

Se c’è un errore politico che davvero si può imputare a Corbyn è di fatto l’ambiguità sulla Brexit. La mancanza di chiarezza sull’approccio all’Unione europea ha di fatto punito i laburisti. Mentre, ad esempio, la costanza con la quale la premier scozzese Nicola Sturgeon ha combattuto contro la Brexit e per l’Europa ha premiato il suo Scottish National Party, schierato decisamente contro l’uscita. Alcuni analisti britannici ritengono che il Labour non poteva certo ignorare l’espressione di voto referendario nel 2016 di 17,4 milioni di persone, e però è rimasto schiacciato tra una politica chiaramente schierata per la Brexit e per una politica chiaramente schierata contro la Brexit. Per questo la proposta laburista di un nuovo referendum è stata bocciata dagli elettori, come se si fosse trattato della negazione della democrazia.

Il collasso del “Red Wall”, il muro rosso

E qui entriamo nel merito della sconfitta in alcune constituencies strategiche per i laburisti, ovvero seggi considerati sicuri che invece sono passati ai Tory. Si tratta di constituencies abitate dalla working class, tradizionali serbatoi del voto laburista, dato per certo in campagna elettorale, e che certo non è più. Nonostante le promesse di tasse miliardarie ai più ricchi per finanziare gli investimenti in servizi pubblici, che avrebbero aiutato redditi più bassi, l’offerta non ha convinto gli elettori nelle cittadine minerarie, siderurgiche e manifatturiere. Insomma, il cuore operaio del nord est inglese, il cosiddetto “Red Wall”, il muro rosso, costituito da constituencies come quelle di Bolsover, Rother Valley, Blyth Valley, Darlington and Redcar conquistate giovedì dai Tory. Si tratta di zone dove il Labour vince da 100 anni. Alcuni ritengono che forse è stato l’effetto delle origini di Corbyn, un borghese delle zone residenziali di Londra, incapace di parlare personalmente alle comunità operaie, nonostante le sue proposte politiche considerate serie e rigorose, ad aggravare la rabbia operaia e a votare per la destra. Si tratta di un fenomeno che altri leader politici di altri Paesi europei hanno condiviso, dalla Francia dei socialisti, alla Germania dei socialdemocratici, all’Italia del Pd. Un po’ ovunque la sinistra paga pegno per aver abbandonato il suo popolo. E Corbyn ha pagato con una sconfitta amara questa scoperta: non basta uno splendido Manifesto politico se dietro non c’è un popolo che lo sostiene. Non si tratta più solo di strategie elettorali, ma di senso dell’impegno politico quotidiano. Il monito ai laburisti è arrivato con un evidente ceffone. La sinistra italiana saprà trarne lezioni?

Da jobsnews


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