Chi ha vissuto quei tempi, chi fa parte di una certa generazione, schierato a sinistra, quella filastrocca certo la ricorda: “Quella sera a Milano era caldo / ma che caldo, che caldo faceva. / «Brigadiere, apra un po’ la finestra», / ad un tratto Pinelli cascò…”.
La “Ballata del Pinelli” è composta da quattro giovani anarchici del circolo mantovano “Gaetano Bresci”, viene improvvisata la sera del 21 dicembre: è il giorno dopo il funerale, adattata sui semplici accordi di un’altra ballata, quella del “Feroce monarchico Bava”, che parla della repressione a Milano del generale Fiorenzo Bava Beccaris all’inizio del ‘900.
Giuseppe Pinelli è un ferroviere, come lo era il padre Alfredo. Milanese di Porta Ticinese, classe 1928. La famiglia non ha grandi risorse economiche, presto lascia la scuola e va a lavorare. E’ divorato dalla sete del “sapere”. Da autodidatta legge centinaia di libri. Nel 1944, a sedici anni, è staffetta della Brigata partigiana libertaria Franco; da allora militerà sempre a fianco degli anarchici.
Nel 1954 entra nelle ferrovie come manovratore. L’anno dopo sposa Licia Rognini; presto arrivano le due figlie, Silvia e Claudia. Abita in un piccolo appartamento vicino San Siro: la piccola casa diventa luogo d’incontro, dibattito e convivialità aperto ai compagni anarchici e a quanti militano nella variegata galassia della sinistra di allora. Giuseppe è molto sensibile ai temi della nonviolenza e all’obiezione di coscienza.
Il 1° maggio 1968 viene è tra i promotori del Circolo “Ponte della Ghisolfa”, nel periferico quartiere operaio della Bovisa. Pinelli è tra i più impegnati: tiene aperta la sede, organizza un servizio-libreria, le conferenze serali; ha contatti con i circoli di altre città e con libertari storici e leggendari come Umberto Marzocchi a Savona e Alfonso Failla, a Marina di Carrara.
Pinelli è l’anarchico più “in vista” nell’ambiente milanese; quello che va in Questura per i permessi e le richieste di autorizzazione. E’ così che conosce un giovane commissario di polizia: Luigi Calabresi. Quando nel tardo pomeriggio del 12 dicembre 1969, dopo l’attentato di piazza Fontana, Calabresi invita Pinelli a recarsi in Questura, l’anarchico non oppone problemi di sorta: inforca il motorino e segue l’auto della polizia.
In Questura ci sono “i soliti noti”, fermati più che altro per fare scena. Hanno preso anche i barboni della stazione centrale. Un po’ alla volta sono rilasciati. Il “fermo” può protrarsi al massimo 48 ore, trascorse le quali o non si può più essere trattenuti, o deve scattare l’arresto. Pinelli illegalmente viene trattenuto in Questura oltre il limite legale. Per questo mai nessuno sarà indagato, neppure ascoltato.
Verso la mezzanotte del 15 dicembre, Pinelli “va giù”. Precipita dall’ufficio di Calabresi al quarto piano, si sfracella a terra.
La famiglia viene avvisata da alcuni giornalisti, quando Camilla Cederna, Giampaolo Pansa e Corrado Stajano, nel cuore della notte vanno a casa Pinelli. La moglie Licia chiama in questura, vuole sapere perché non l’hanno avvisata. Rispondono: “Non avevamo tempo”.
Pinelli muore all’Ospedale Fatebenefratelli. Il 20 dicembre 1969 i funerali, un lungo corteo funebre di circa tremila persone. Ora Pinelli riposa nel cimitero di Turigliano, vicino a Carrara.
Il questore di Milano rilascia dichiarazioni incredibili, che tuttavia sono credute e riferite da numerosi giornali e dai notiziari TV: Pinelli si sarebbe suicidato, schiacciato dalle prove a suo carico: uno slancio da atleta che sorprende tutti, e giù dalla finestra, gridando “E’ la fine dell’anarchia”.
Segue uno sconcertante carosello di versioni contraddittorie, ognuna smentisce la precedente.
Il 27 dicembre 1969 la moglie Licia e la madre di Pinelli denunciano il questore Marcello Guida, ex funzionario fascista e direttore del confino di Ventotene, per diffamazione; il 24 giugno 1971 vengono denunciato il commissario Calabresi e le persone presenti in questura la notte del 15 dicembre; i reati ipotizzati: omicidio volontario, sequestro di persona, violenza privata, abuso di autorità. L’istruttoria, affidata al giudice istruttore Gerardo D’Ambrosio viene archiviata il 27 ottobre 1975. Si escludono sia il suicidio che l’omicidio; la morte è provocata da “un malore attivo”. e motivando la morte come un “malore attivo”. Vale a dire: un Pinelli barcollante, digiuno da più di 48, ubriaco di caffè e sigarette fumate, si sente male, si avvicina alla finestra, lui è alto circa un metro e sessanta, e scivola giù, nonostante la balaustra di novanta centimetri… Tutti gli indiziati sono prosciolti.
Come è davvero morto Pinelli?
Aldo Palumbo, cronista de “l’Unità”, quella sera del 15 dicembre è attraversato da una quantità di dubbi e foschi pensieri. Si trattiene nel cortile della questura, incerto sul che fare. Sente un tonfo, subito dopo altri due: un corpo che cade dall’alto, batte su un cornicione del muro, rimbalza, si schianta al suolo. Palumbo si avvicina al corpo, capisce, corre a dare l’allarme. L’orologio segna la mezzanotte e tre minuti. Nei giorni seguenti, l’orario viene modificato: prima verso mezzanotte, poi “Pinelli è morto alle ore undici e 57 minuti del lunedì notte 15 dicembre”.
Sembra un niente sei minuti in avanti o indietro. Però… quella notte risulta una chiamata dalla questura di Milano al centralino telefonico dei vigili urbani per richiedere l’intervento di una autoambulanza; risulta esser fatta alla mezzanotte e 58 secondi. Due minuti e due secondi prima della caduta di Pinelli, si chiama l’ambulanza? Ecco che si sposta l’orario. Ma allora tutti i giornalisti presenti, Palumbo per primo, si sono sbagliati quando hanno parlato di mezzanotte e tre minuti?
Capita. Capita anche che due agenti della squadra politica della questura si presentino al centralino telefonico dei vigili urbani per controllare il momento esatto di registrazione della chiamata. Lodevole zelo, questa preoccupazione. Capita che a gennaio Palumbo rientri a casa e la trova sottosopra: ogni cassetto, ogni mobile, ogni armadio frugato, perquisito. Ladri? I soldi, tredicimila lire sono lì, in una borsa, che pure è stata perquisita. O qualcuno ha pensato che Palumbo avesse qualcosa, o lo ha voluto “avvertire”.
A voler esser puntigliosi, di cose che non tornano, se ne possono trovare tante. Senza voler fare i dietrologi a tutti i costi: una persona che ha un “malore attivo” “vola” da un quarto piano, scivola lungo il muro, rimbalza sui cornicioni, e mentre tutto questo accade non gli esce un lamento di bocca?
La polizia fornisce tre versioni contrastanti: Pinelli spalanca la finestra, tentano di fermarlo, non ci riescono. Poi: Pinelli palanca la finestra, tentano di fermarlo, ci riescono in parte: ne fermano lo slancio, ecco perché scivola lungo il muro. Una versione resa dopo che molti hanno rilevato la stranezza della prima versione. Terza versione, la si trova il 17 gennaio 1970, un’esclusiva del “Corriere della sera”: Pinelli spalanca la finestra, tentano di fermarlo, uno dei sottuffuciali presenti, il brigadiere Vito Panessa, con un balzo cerca di afferrarlo e salvarlo; in mano gli resta una scarpa del suicida. Ma anche qui: tutti i giornalisti accorsi nel cortile quella notte, concordi, dicono che Pinelli aveva tutte e due le scarpe ai piedi…
Il movente del suicidio: Pinelli, coinvolto negli attentati, vede crollare il suo alibi per il pomeriggio del 12 dicembre; disperato si uccide; e nel farlo grida: “E’ la fine dell’anarchia”. Peccato: l’alibi non è affatto crollato, ha retto tutte le verifiche. Seconda versione: Pinelli, innocente, non ha nulla a che fare con gli attentati, e nessuno riesce a capacitarsi del suo gesto. Ma allora, perché viene trattenuto per ore e lungamente, insistentemente interrogato?
Come per l’intera vicenda relativa a piazza Fontana, anche per quel che riguarda la morte di Pinelli, reticenze, omissioni, depistaggi, menzogne. Viene in soccorso un libro, “Pinelli l’innocente che cadde giù”, del giornalista e scrittore Paolo Brogi. Ha scovato, tra le altre cose, un verbale, finora inedito, che racconta come alcuni uomini dell’Ufficio Affari Riservati, il servizio segreto del Viminale alle dipendenze di Umberto Federico Damato, l’indomani del 12 dicembre si trasferiscono da Roma a Milano; sono di casa in Questura, i veri “padroni delle indagini”.
Il verbale contiene la deposizione di un dirigente dell’Ufficio Affari Riservati, oggi pubblico grazie alla Direttiva Renzi che, nel 2014, chiede alle istituzioni di riversare nell’Archivio di Stato tutte le carte riguardanti le stragi. Un verbale è importante: aiuta a delineare, attraverso un documento ufficiale, lo scenario che cinquant’anni fa dà inizio alla stagione delle stragi: “La Questura di Milano in quel dicembre del 1969, quando morì l’anarchico Giuseppe Pinelli precipitato dal quarto piano mentre era in corso il suo interrogatorio, pullulava di agenti segreti. Il paradosso, a partire dalle inchieste condotte allora sulla morte di Pinelli, è che di questi uomini degli Affari Riservati – almeno una dozzina arrivati da Roma – non si trova traccia. Fantasmi, che riemergeranno a distanza di venticinque anni quando giudici di Venezia e Milano chiederanno loro conto di quelle giornate milanesi del ’69. Ma a ridosso degli avvenimenti nessuno se ne occupa. Eppure il potente organismo che sarebbe stato finalmente sciolto nel 1974 dopo la nuova strage di Brescia a Piazza della Loggia era lì per dirigere le indagini. Come? Con il teorema anarchico, che la Questura milanese adottò senza incertezze. A guidare il gruppo era Silvano Russomanno, numero due del servizio, un ex repubblichino che dopo l’8 settembre si era direttamente arruolato in un reggimento tedesco e che alla fine della guerra era stato poi portato nel campo di concentramento di Coltano. Al povero Pinelli, che a 15 anni era stato staffetta partigiana, veniva contestato un attentato compiuto il 25 aprile del 1969. Un attentato per il quale sono stati poi condannati i fascisti ordinovisti. Ecco qual era il ruolo dei servizi”.
E per quel che riguarda il verbale? In sostanza rivela che a poche ore dalla strage arrivano da Roma alti dirigenti dell’Ufficio Affari Riservati già “sicuri” della pista anarchica, mentre il capo dell’Ufficio Politico Antonino Allegra e il commissario Luigi Calabresi erano ancora incerti sulla pista da seguire. Il verbale documenta che gli Affari Riservati erano i “padroni” dell’inchiesta, soggiornavano in Questura dalla mattina alla sera, disponevano di fonti come quella su cui è stato costruito il teorema anarchico”.
Chi sosta oggi a piazza Fontana, a due passi da piazza Duomo, trova tre lapidi: una sul frontone del palazzo dove c’era la Banca dell’Agricoltura, le vittime della bomba: Giovanni Arnoldi, 42 anni.
Giulio China, 57 anni. Eugenio Corsini, 65 anni. Pietro Dendena, 45 anni. Carlo Gaiani, 57 anni. Calogero Galattico, 71 anni. Carlo Garavaglia, 67 anni. Paolo Gerli, 77 anni. Luigi Meloni, 57 anni.
Vittorio Mocchi, 32 anni. Gerolamo Papetti, 78 anni. Mario Pasi, 50 anni. Luigi Carlo Perego, 69 anni. Oreste Sangalli, 49 anni. Angelo Scaglia, 61 anni. Carlo Silvia, 71 anni. Attilio Valè, 52 anni.
Altre due, nel giardino, sono in memoria di Giuseppe Pinelli. La prima, del Comune di Milano: “A Giuseppe Pinelli, ferroviere anarchico, innocente morto tragicamente nei locali della questura di Milano il 16 dicembre 1969”. L’altra, degli studenti e dei democratici milanesi: “A Giuseppe Pinelli, ferroviere anarchico, ucciso innocente nei locali della questura di Milano il 16 dicembre 1969”.
“Morto”… “Ucciso”: comunque nei “locali della questura”. Uno dei tanti che viene privato della sua libertà, che entra vivo in locali dello Stato, e ne esce morto. Come sia andata, è inaccettabile. Con l’aggravante che per questa morte nessuno ha pagato; e a tutt’oggi non si sa chi c’era, in quella stanza oltre ai funzionari di polizia Vito Panessa, Giuseppe Caracuta, Marlo Mainardi, Pietro Mucilli, e il tenente dei carabinieri Savino Lograno: quei funzionari romani dell’Ufficio Affari Riservati: chi erano, quanti erano, perché non sono mai stati interrogati?