Negli ultimi 44 giorni, dal 7 novembre al 20 dicembre, ho attraversato l’Italia tenendo 21 incontri per presentare il mio nuovo libro “Corrispondenze Afghane”, in altre parole per raccontare la guerra e la pace, dinamiche dominanti ma nascoste del mondo contemporaneo. Migliaia di km in tutta Italia da Sassari a Buccino, per parlare di combattenti della guerriglia, di soldati con la divisa, di giocatrici di pallacanestro che sfidano la morte per andare in campo, di donne che in un Paese di uomini vanno in mezzo ai “tossici” per provare a salvarli, di chi costruisce protesi e di chi prova a rimettere insieme corpi dilaniati dalle bombe, di chi vive sapendo che ogni giorno può essere l’ultimo.
Com’è andata?
Sale piene, spesso con posti in piedi e grande partecipazione, di testa e di cuore. Ho incontrato centinaia e centinaia di persone. Gente che pur di esserci ha sfidato la pioggia, il traffico, la contemporaneità con le partite di calcio, i parcheggi stracolmi o inesistenti, lo shopping natalizio o quanto meno il confortevole (per la propria coscienza) divano di casa. Ad organizzare sono stati circoli e associazione, mai istituzioni. Una partecipazione al di sopra delle aspettative, in grandi centri come in “provincia”.
È valso ancora di più perchè è accaduto nell’era del “nulla” trasformato in argomento centrale delle nostre vite, di modi e mode che ci vorrebbero solo “consumatori” e adoratori di oggetti, di persone “seguite” solo per bicipiti o taglia del reggiseno, di “influencer” contro i quali non ti riesci a vaccinare, del superfluo che diventa il problema centrale di vite che non hanno altrimenti “veri” problemi.
Cosa ho imparato e/o che idee mi ha confermato questo booktour?
1) Quando nelle quotidiane riunioni editoriali i giornalisti bollano certo argomenti come cose che “alla gente non interessano” fanno un errore non solo di presunzione ma anche di business, perchè lasciano spazio ad altre fonti d’informazione. Nel commetterlo, plasmano anche la domanda stessa che sale dal “mercato”, condannandosi all’eterno dejavù del racconto del teatrino politico italiano, di qualche fattaccio di cronache, dell’ “alleggerimento” frivolo di giornata.
2) C’è un pezzo di pubblico (quanto grande non posso dirlo) che non sopporta più l’informazione fotocopia, che cambia canale e cambia giornale ma trova bene o male sempre le stesse notizie e perdono fiducia nei media. Applicato su vasta scala e ad altri settori, è il meccanismo che porta le persone poi ad incamminarsi nei perigliosi sentieri di Internet e YouTube dove si espongono poi a manipolazioni, bugie e ogni genere di operazione (commerciale e propagandistica)
3) Se vogliamo “vendere” più libri nell’era della lettura e della memoria “breve”, dobbiamo incontrare persone, metterle insieme, rispondere ai loro bisogni di informazione, dialogare, interagire, in breve fare comunità. E’ finita l’epoca del “push” quando bastava pubblicare e lavorare su pubblicità e punti di vendita (che pure conservano oggi un ruolo importante ma sono nelle mani di pochi soggetti, vista la scomparsa delle librerie indipendenti). Quando gli fecero presente che in Indonesia i suoi Cd venivano copiati e quindi non se ne vendevano, negli anni ’90, quel grande sperimentatore (multimediale) di Peter Gabriel rispose: “Dobbiamo fare più concerti in Indonesia”. Ci aveva visto lungo.
4) La politica italiana continua ad azzuffarsi su questioni di portata globale, trattandole come fatti locali: parliamo di sbarchi ma non della guerra in Libia, ci azzuffiamo sul destino di un battello ma non ci confrontiamo sulle dinamiche del conflitto in Siria. E’ inutile lanciare slogan, a prescindere dal loro “colore”, quello serve solo a fare voti (nel breve termine) e a sollevare istinti spesso “bassi”, se vogliamo raggiungere obiettivi e risolvere problemi abbiamo bisogno di spiegare alle persone la “big picture”, insomma il quadro mondiale e globale degli eventi; quell’informazione estera che viene sempre trattata come un optional da troppi editori e politici non come una sostanziale, inevitabile, necessità.